lunedì 11 aprile 2016

Intrigo a Berna



Intrigo a Berna: Una avventura sentimentale di Eleanor LeJune

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Presentazione
La giovane Anna, giornalista in erba, viene inviata dal suo giornale a Berna per scoprire che fine ha fatto un famoso multimilionario, Michael Wayne, che è stato rapito da una banda che si definisce Ordine Nero.
Un romanzo giallo-rosa, narrato in prima persona dalla giovane protagonista, che ci fa scoprire l’animo di una ragazza semplice e sentimentale.
Remake di un romanzo degli anni 40, riambientato negli anni settanta o ottanta, Eleanor LeJune lo rielabora in chiave sottilmente erotica.
Questa storia è incominciata nel momento in cui Giacomo Orsini ebbe l’idea di sposarsi. Scapolo di professione, la notizia del suo fulmineo matrimonio ci colse di sorpresa tutti quanti. Soprattutto me che avevo sperato in qualcosa di più dalla breve relazione che avevo avuto con lui.
I fulmini di Cupido colsero Giacomo Orsini mentre si trovava in missione speciale a Berna con l'incarico di chiarire il mistero Wayne... Sì: il mistero Wayne. Tutti parlavano ormai di questa misteriosa storia. I giornali del mattino, del pomeriggio e della sera non scrivevano altro sulla loro prima, seconda e terza pagina.
Le autorità di polizia svizzera si trovavano infatti di fronte ad un enigma e tutti gli inviati speciali erano affluiti a Berna da ogni parte della Svizzera e del Mondo per cercare di risolvere l’intricata vicenda e telefonare intanto alle redazioni dei loro giornali intere colonne sull'avvenimento.”
Incipit
Questa storia è incominciata nel momento in cui Giacomo Orsini ebbe l’idea di sposarsi. Scapolo di professione, la notizia del suo fulmineo matrimonio ci colse di sorpresa tutti quanti. Soprattutto me che avevo sperato in qualcosa di più dalla breve relazione che avevo avuto con lui.
I fulmini di Cupido colsero Giacomo Orsini mentre si trovava in missione speciale a Berna con l'incarico di chiarire il mistero Wayne. Sì: il mistero Wayne. Tutti parlavano ormai di questa misteriosa storia. I giornali del mattino, del pomeriggio e della sera non scrivevano altro sulla loro prima, seconda e terza pagina.
Le autorità di polizia svizzera si trovavano infatti di fronte ad un enigma e tutti gli inviati speciali erano affluiti a Berna, da ogni parte della Svizzera e del Mondo, per cercare di risolvere l’intricata vicenda e telefonare intanto alle redazioni dei loro giornali intere colonne sull'avvenimento.
I tipografi, le segretarie, i giornalisti cinematografici, i fotografi, le disegnatrici della pagina destinata alla moda e il capo redattore, tutti parlavano di una sola cosa: del mistero Wayne.
E i passeggeri della metropolitana e le ragazzine che si fermano ad ammirare le vetrine dei negozi di moda e le massaie che lavano in serie le fasce dei neonati e i direttori generali che nei loro uffici sono in attesa che il fattorino porti loro la solita tazza di caffè e i fattorini che si recano nel vicino bar a prendere questo caffè... tutti parlavano sullo stesso argomento. Nelle comunicazioni televisive del mattino, di mezzogiorno e della sera si attendeva solo che l'annunciatore pronunciasse la frase: Il mistero Wayne risolto.
Si trattava davvero di un avvenimento straordinario. Una cosa simile non era mai accaduta in Svizzera: rapire un giovanotto in piena Berna, nella pacifica linda Berna, sino allora immune dalla delinquenza comune od organizzata.
Ma il fatto acquistava maggior rilievo per essere il rapito nientemeno che il signor Wayne Junior e sottratto in pieno giorno dalla villa di suo nonno. Non che questo giovanotto avesse compiuto qualche cosa di eccezionale.
Nemmeno per sogno!
Egli aveva impiegato i ventotto anni della sua esistenza terrena a prepararsi ad ereditare, un giorno, i milioni dei Wayne. I milioni dei Wayne, ma soprattutto la grande azienda Wayne: petrolio, fondi comuni di investimento e banche.
Si trattava dunque proprio di questo Wayne, di Michael Wayne, del multimilionario di domani. Infatti quanto poteva durare ancora il vecchio Wayne? Aveva oltrepassato l'ottantina e rassomigliava molto al Andrew Carnegie degli ultimi ritratti: una mummia insecchita che non vuol decidersi a morire.
La nostra redazione aveva inviato Giacomo Orsini a Berna quale corrispondente speciale per l'affare Wayne. E' inutile soffermarci a dire che Giacomo Orsini nel campo giornalistico rappresenta un grosso calibro, il miglior giornalista di Roma e dintorni.
Troppo naturale quindi che io diventassi rossa dalla gioia quando un giorno Orsini mi aveva degnato di una piccola conversazione. Ho solo diciannove anni, da circa un anno sono addetta alla redazione del Giornale del Mattino e posso solo intervistare stelle cinematografiche quasi sconosciute oppure politici di secondo ordine oppure anche redigere dei rapporti sui furti negli appartamenti o altre amenità di nessun spessore.
E' pertanto comprensibile come questo grosso calibro, questo Giacomo Orsini, colpisse la mia fantasia. Io dividevo in quell'epoca il mio angusto ufficio con Surace, il cronista giudiziario, che era sempre appeso al telefono mentre io per poter avere una comunicazione dovevo prenotarmi e attendere il turno.
Allora di quando in quando capitava dentro Orsini, ma solo per chiedermi una sigaretta. Egli voleva infatti togliersi il vizio del fumo e per far ciò incominciò con il non comperarsi più sigarette e con il chiederle a tutti i redattori, specialmente a me. Mi sentivo davvero molto onorata.
Sigaretta dopo sigaretta un giorno mi disse che ero molto bella e non so come e non so perché mi ritrovai tra le sue braccia. Nulla di speciale: qualche bacio, un seno messo a nudo, una mano tra le gambe.
Non che Orsini non tentasse di portarmi a letto, ma qualcosa mi diceva di non cedergli. Non che io sia una moralista o una pudica, il sesso mi piace ma se accompagnato dall’amore. E Orsini non concedeva nulla ai sentimenti.
Ma torniamo all’affare Wayne. Giacomo Orsini si trovava da due settimane a Berna. Dio solo sa da chi attingesse le sigarette. Forse dal collega De Anna della Gazzetta del Mattino, pure inviato colà allo stesso scopo.
Orsini non era riuscito a sapere nulla sul mistero Wayne, aveva però descritto con lusso di particolari la villa nella quale abitava Michael e spedito una malriuscita fotografia del giovane rapito.
Egli aveva intervistato le due cameriere, il domestico, la vecchia cuoca e l'autista. Aveva anche inviato per fax l'originale di un'intervista avuta con il Sindaco di Berna.
Il piccolo De Anna della Gazzetta del Mattino non vi era riuscito, tanto che il redattore capo non potè fare a meno dal proclamare: Che grosso calibro quel Orsini! Aveva inoltre telefonato che la vita a Berna era terribilmente cara e che bisognava fargli una consistente rimessa. Ma in quanto al giovane Wayne e ai suoi rapitori, buio pesto!
Poi, la notizia del matrimonio. Egli abbandonava le indagini per andare in viaggio di nozze.
Era un tardo pomeriggio ed io sedevo davanti al mio computer per scrivere del caso piccante capitato ad una nota ballerina, la quale durante una trasmissione televisiva, mentre eseguiva un ballo, aveva perso la propria gonna mostrando che sotto non indossava nulla.
Apriti cielo contro la poveretta che aveva portato l’indice di gradimento alle stelle e che si era comportata scrissi io, nell’unico modo in cui poteva comportarsi, uscendo di scena.
Ma questa cruda realtà aveva deluso i suoi ammiratori. Stavo per andare a prendere un caffè, quand'ecco il telefono squilla nel nostro ufficio.
Surace prende il cornetto e: Glielo dico subito, risponde. Quindi rivolto a me:
Il vecchio ti attende nel suo ufficio.
Lo guardai stupita. Io, proprio io dovevo andare dal vecchio? Ciò non mi era ancora capitato, perchè il vecchio, il redattore capo cioè, era solito chiamare a sè solo i più importanti collaboratori.
Io ricevevo gli ordini di lavoro da Surace che mi aveva comunicato, una volta, che il vecchio qualche volta aveva lodato i miei articoli. Una volta però aveva mutilato profondamente una mia relazione sulle condizioni sanitarie del dormitorio pubblico comunale. Chiacchiere infantili aveva concluso a commento del mio lavoro.
Ed ora dovevo improvvisamente andare da lui.
Il vecchio non era affatto vecchio. Dai quaranta ai cinquant’anni. Bell’uomo, dai capelli brizzolati alle tempie e sempre impeccabilmente vestito. Lo si poteva paragonare ad un divo. Affascinante, oltre ogni dire.
Inutile dire che ero emozionata. Mi ravvivai i capelli, controllai che la gonna non fosse troppo corta e che la camicetta non fosse sbottonata, volevo sembrare quanto più che mai professionale ed entrai nell’ufficio della signorina Elsa, la sua segretaria, la quale appena mi vide disse:
Andate pure avanti, vi attende.
Il cuore incominciò a battermi. Mi attende? Certamente è successa una catastrofe, pensai. Mi licenzierà, devo averla fatta grossa. Forse la stella cinematografica che ieri ho intervistata starà a cuore a qualche ministro ed io ho avuto il coraggio di scrivere che i suoi capelli neri recentemente avevano dei riflessi lilla... chissà...
Picchiai alla porta. Il vecchio sedeva alla sua scrivania e guardava fuori dalla finestra. Avanzai di due passi, mi fermai. Il vecchio mi fissò portando il suo sguardo alla mia figura slanciata. Mi squadrò dall'alto in basso, con sguardo compiaciuto.
Peccato, pensai, forse sarebbe stato meglio tenere la camicetta slacciata ed avere indossato una minigonna.
Puntando il suo sguardo nel mio, mi disse:
Accomodatevi, signorina Negri.
Mi accomodai infatti sull'estremo spigolo della sedia, vicino alla sua scrivania. Il suo sguardo era ora sul mio seno e la cosa mi metteva a disagio. Se non avessi saputo che era persona estremamente seria, avrei cominciato a pensare che volesse invitarmi a cena per poi….
Il vostro collega Giacomo Orsini ha deciso di essere dei più! — incominciò con voce stanca.
Buon per lui — scoppiai a dire involontariamente, con astio.
Il vecchio sorrise e il suo viso si illuminò di una schietta umanità.
Sì, buon per lui, ma mi indispone il fatto che lo abbia fatto proprio ora che stava per concludere l’affare Wayne.
Al cuore non si comanda — risposi io, ma alla fine non volli aggiungere di più. Il sarcasmo delle mie parole era fin troppo rivelatore dei sentimenti che avevo provato e che, forse, provavo ancora per Orsini.
Si, al cuore non si comanda. Orsini ritiene che al momento sia inutile continuare le indagini a Berna.
Il vecchio si interruppe.
Sta bene, ma che c'entro io con tutto ciò? — pensai.
Accettate una sigaretta?
Mi persuasi subito che non si trattava più di licenziamento. E la voce stanca continuò:
Le relazioni sulla villa dei Wayne, sulle aziende omonime, sulle circostanze del ratto, ecc., sono già state trattate ampiamente da Orsini. Anche se lui mi consiglia di non mandare nessuno a Berna, io non sono d’accordo. Quello che mi importa per il momento è che ci sia qualcuno a Berna che si interessi della cosa, che si metta giornalmente a contatto con la polizia e personalmente tenti di scoprire qualche traccia. Il nostro corrispondente fisso in Svizzera non ha tempo per dedicarsi anche a questa indagine ed io non intendo cedere la risoluzione del caso a De Anna della Gazzetta del Mattino che è sempre là ed è un abile elemento...
Io intanto fumavo meditabonda senza nulla comprendere. Orsini ritorna. Il nostro corrispondente in Svizzera non ha tempo. Ed allora? Dovrei concludere che il vecchio intende mandarmi a Berna. Impossibile, nessuno pensa che io possa dedicarmi al mistero Wayne. E' un compito per grossi calibri. Deve esserci un malinteso.
Non potreste prendere il treno della notte per Berna? Avete ancora tre ore di tempo per preparavi.
Non mi mossi. Aprii la bocca, squadrai il vecchio, chiusi la bocca, rimasi immobile.
Il vecchio frattanto pensava: E' una bella idiota! Ma che ci posso fare? Orsini si è sposato. D'altra parte sembra che per i prossimi giorni nessun avvenimento sensazionale sia imminente. L'affare andrà a finire nel dimenticatoio. Peccato per il giovane multimilionario. La giovane dovrà ad ogni modo andare a Berna e tenerci al corrente. E' necessario che quotidianamente il giornale riproduca qualche riga sul mistero Wayne che tanto commuove il mondo. La giovane è una triplice idiota ma è l'unica di cui mi possa privare a cuor leggero nella redazione.
Signorina Negri, potete partire allora fra tre ore?
A questo punto mi alzai improvvisamente e assunsi un atteggiamento energico. Avevo ora ben capito. Caspita! Ecco finalmente arrivata per me la fortuna. Parto per Berna e dimostrerò a tutta l’Italia che Anna Negri è una giornalista di grosso calibro.
Certo, signor caporedattore. Vedrete che non vi deluderò.
Uno sguardo ironico attraversò il suo sguardo.
Il vostro zelo mi piace. E' una vera fortuna, signorina Negri. Voi assumete il più arduo compito che possa incombere ad una giornalista. Attendo le vostre telefonate giornalmente alle 14 e alle 22. Non dimenticate che in ogni nostra edizione dobbiamo riprodurre almeno qualche riga sull'affare Wayne. Mettetevi alle calcagna della polizia criminale di Berna e seguite le tracce anche le più lievi. Ogni particolare, per quanto insignificante, può interessare. Tutta Roma attende i vostri rapporti.
Mi stese la mano e aggiunse:
Passate alla cassa, riceverete la diaria per la prima settimana del vostro soggiorno a Berna. La durata di esso dipenderà dalla piega che prenderanno gli eventi. Se non sopravverrà nessun mutamento ritengo che potrete rientrare fra una settimana. La signorina Elsa vi ha già preparato tutti i rapporti fin qui pubblicati sul mistero Wayne e inoltre un libro che tratta dell'azienda Wayne. Potrete leggere tutto ciò durante il viaggio per formarvi una idea generale sull'argomento. Buon viaggio, signorina Negri.
Ci sono dei momenti nella vita degli esseri umani in cui uno si sente completamente irresponsabile. Questo momento era giunto ora anche per me. Ero già arrivata alla porta quando improvvisamente mi voltai esclamando:
Signor caporedattore, al mio ritorno prego di volermi aumentare lo stipendio.
Non è questo il momento per simili discussioni. Prendete subito un'auto e andate a casa. Imballate i vostri migliori vestiti per far bella figura a Berna e telefonate i vostri rapporti. Tutto il resto è accessorio.
No, — risposi insistendo nella mia irresponsabilità, — non è una cosa accessoria. Se assumo un compito lo so anche condurre a termine. Sono decisa a scoprire dove è il giovane Wayne e a portarvelo vivo o morto a seconda dello stato in cui lo troverò. Ma in cambio voglio un aumento di stipendio.
Il vecchio allora si animò. Alzatosi vivacemente si precipitò verso di me e mi accarezzò una guancia scoppiando in una grassa risata. Rise fino alle lacrime. In questo momento egli non rassomigliava più ad un divo del cinema che per errore si fosse perduto in una redazione, ma piuttosto si profilò in lui nitida la figura del giornalista grosso calibro che solo un caso aveva portato al tavolo di caporedattore.
Tu, piccina, proprio tu vorresti portarmi Wayne, mentre Orsini e tutti gli altri non sanno raccapezzarsi e la polizia di Berna lo cerca in mare in terra e nell'aria. Proprio tu vuoi portarmelo. Certamente andrai a finire male con le tue idee insensate, ma non è escluso che tu possa riuscire. Tu sei matta, bambina mia, ma mi piaci!
Ero ridiventata ragionevole e modesta. Il viaggio mi incuteva un'angoscia mortale. Non ero mai stata a Berna e per quanto riguardava la lingua tedesca l'avevo solo imparata a scuola, anche se sapevo parlarla in modo fluente. Allora la mia professoressa aveva detto che la mia pronuncia era pietosa. Mi sentii venire il capogiro e cercai d'infilare la porta.
La signorina Elsa mi aveva nel frattempo consegnato un fascio di ritagli di giornali e un libro. Subito mi saltò agli occhi in lettere cubitali il nome: Wayne. Il cassiere mi versò per una settimana più danaro di quanto io ne consumavamo in un trimestre. Sulla scrivania del mio piccolo ufficio c'era già il biglietto ferroviario. Il collega Surace udì che telefonavo per un tassì.
Sei pazza da legare, — mi disse, — comperati piuttosto delle calze più eleganti. Quelle che hai sono proprio da educanda.
Devo affrettarmi — risposi. — Ho un incarico importante, devo scoprire dove è il giovane Wayne.
Anna, cara piccola Anna, — replicò costernato Surace — hai perduto la ragione.
Quindi, dolcemente, come si fa coi bambini e coi matti, aggiunse:
Orsini ha già questo incarico.
Nel frattempo il fattorino spalancò la porta.
Signorina Negri, il tassì è pronto.
Orsini si è sposato ed ora è in viaggio di nozze, — dissi a Surace.
Si è sposato? Ma che mi dici mai. Lo scapolo per eccellenza! — disse Surace.
Ma io era già fuori dall'ufficio.

Due ore e mezzo più tardi ero sul treno diretto a Berna.

L'Alito della Morte



L'Alito della Morte di Vincenzo Collina

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Presentazione
Romanzo. Genere: Thriller-Poliziesco.
Due amici che lavorano, negli anni subito dopo la prima guerra mondiale, in una fabbrica che costruisce aerei da guerra, una sera si imbattano nel cadavere di un uomo con un coltello tra le costole ed una strana incisione sulla fronte. I due amici decidono di ignorare il cadavere, ma l’assassino o gli assassini sanno di loro. E una serie di interrogativi comincia a farsi avanti per avere delle risposte. Perché Filippo Caldera, la voce narrante della storia, è stato mandato dal signor Modesti in un vecchio monastero abbandonato che è stato sede anche di un museo delle cere? Perché Enrico Ricci, l’altro che ha visto il morto, viene improvvisamente inviato a Venezia e dal quel momento diventa introvabile? E con tutto questo cosa c’entra la fucilazione di un disertore italiano, alla fine del primo conflitto mondiale? E chi è la bella e affascinante Eleanor Winter che improvvisamente fa la sua comparsa dicendo di essere la fidanzata di Ricci? La bella inglese ha veramente conosciuto il pilota italiano, asso dell’aviazione in guerra? E perché Jack Clayton, anche egli inglese e amico di Ricci, porta Filippo Caldera in una villa misteriosa appartenente alla setta Deutsche Vaterlandspartei?
Piano piano la tenacia di Filippo Caldera, con l’aiuto di una spigliata collega, dalla reputazione discutibile, districa la matassa fino ad una conclusione diversa da quella che era stata progettata dai suoi nemici.
Incipit
11 giugno 1916 – ore 9.00
Oggi si fucilerà un sergente, reo «di non aver fatto la possibile difesa», abbandonando il campo di battaglia presso il Turcio.
La sconfitta, il panico delle truppe accorrenti che per via vedevano, sentivano e intuivano la paurosa tragedia, il turbine dei generali silurati e dei comandi che si sovrappongono, ordinano e contrordinano, accusano e si accusano, tutto ciò che porta un senso di sfiducia e di sconforto, al quale si reagisce con le fucilazioni sul campo, isolate e in massa.
Un colonnello ne ha fatti fucilare una ventina, tra cui un sottotenente. Ne ha ricavato un encomio solenne dal Comando Supremo. L’uomo, condotto alla morte, tenta di fuggire, come una povera bestia inseguita dalla muta dei cani. La legge di guerra lo afferra e lo fucila. Si tengono le truppe con il terrore. Salus patria suprema lex. Ognuno che è qui vive nella tragedia.
Questo sergente, che oggi sarà fucilato, fu arrestato mentre tentava di fare una scappata a casa. Egli mi ha detto:
«Sono da un anno al fronte. Ero al Costesin durante il bombardamento e l’attacco austriaco. Chi vi ha resistito non è un vile. Io ho fatto sempre il mio dovere... È possibile che mi si fucili? Mi lascino andare in trincea... Mi mandino contro i reticolati nemici, a cercare una pallottola... Non voglio morire così, colpito da fucili italiani! Volevo fare una scappata a casa... Ho figli, io...» e la voce gli si alterava e il bel viso bruno gli si oscurava tutto e l’occhio gli si inumidiva. Ma, ancora, non piangeva.
Ho saputo dal morituro che gli era giunta notizia che sua moglie lo tradiva. Costei, che ne aveva fatto un disertore, ne farà un morto.
Ma chi, chi ha il diritto di togliere la vita a un altro uomo? «Non uccidere!» fu invano comandato?
Chi scatena una guerra?
Non certo un uomo, detto re, ma mille forze, una delle quali provoca l’altra, forse anche inconsciamente, e la ingigantisce, come avviene delle valanghe. Si stacca un sasso dalla più alta cima: quale forza volontaria, cosciente l’ha staccato? Nessuna. E per la via la valanga si forma e rovina al fondo. Così la guerra, che ci sarà sempre finché, dicono coloro che si adagiano nella fatalità storica, finché vi saranno due uomini e un pugno di grano. Finché, dicono gli uomini di buona volontà, suprema legge diventi la bontà. Finchè, dico io, esisteranno le parole Dio e Patria.
Ora, quest’uomo, fra poche ore, verrà ucciso e nessuno ne sentirà il rimorso.
Il tribunale di guerra: no. Il tribunale è la legge. La legge dice, all’articolo 92 del codice penale dell’esercito: «fucilazione».
Chi ha scritto la terribile parola? Colui che doveva difendere la nazione nella guerra.
Ora, per vincere una guerra bisogna uccidere.
I carabinieri che trascinano il morituro nel verde prato accanto al camposanto? No. Perché il carabiniere non è un uomo. E la forza, senza la quale non vi è legge. E la forza è una cosa vestita da carabiniere.
L’ufficiale che darà il cenno? No. È stabilito per regolamento quale egli sarà. Ora, se io fossi aiutante maggiore del suo reggimento, io dovrei fare quel cenno. Ed io non vorrei farlo. Chi lo farà non vorrebbe farlo.
I cinque soldati che punteranno l’arma su di lui? No. Essi non vorrebbero ucciderlo. Lo debbono.
Tutti obbediscono. Il più alto di noi obbedisce. A chi? Alla cosa, che è la legge.
Si può distruggere la legge? Sì, ma per ucciderla occorre spingere degli uomini a farsi uccidere.
Ed ecco che noi tutti compiremo l’assassinio e nessuno di noi avrà il turbamento dell’omicida. Ognuno di noi agisce perché scocchi l’ora della morte di un uomo. E nessuno di noi può fermare l’attimo.
Potremmo, se ne discutessimo, rinfacciarci l’un l’altro il delitto legale. E picchiarci. E inseguirci l’un l’altro gridando:
«Assassino
E colpire. E un altro colpirebbe noi e urlerebbe:
«Assassino
Uno di noi v’è però che può fermare l’attimo: l’ufficiale, che farà il cenno perché i soldati scarichino l’arma, avrà quel potere divino.
Egli potrà tardare un minuto secondo, con il braccio alzato, prima di farlo ricadere perché i soldati sparino.
Egli può pensare:
«Uomo: potresti essere già ucciso ed ecco, io prolungo la tua vita... L’attimo ancora non scocca...»
Ma quale uomo, che abbia tale terribile potere, avrà l’orgoglio di usarne e compirà il delitto di prolungare di un secondo, di un attimo, la spaventosa attesa del morituro?
Se uno dei soldati comandati ad ucciderlo non volesse uccidere, basterebbe che deviasse l’arma... Lo avrebbero ucciso gli altri...
E se anche agli altri, collettivamente, e singolarmente, balenasse lo stesso pensiero?
Ma altri cinque tiratori saranno pronti... Via, queste considerazioni mi porteranno alla burletta...
Nessuno di noi vuole la guerra. Nessuno di quelli che ci stanno di fronte la vuole...
Perché non abbassiamo noi le armi? Perché non le abbassano gli altri, se tutti ne abbiamo la volontà?
Dice un colonnello medico, dotato di alquanta fifa, quando la nostra povera artiglieria comincia a sparare:
«Ecco: noi cominciamo a stuzzicarli... e quelli rispondono... Noi stiamo zitti e quelli stanno zitti... Si potrebbe star così bene, dio taciturno
La cosa finisce in burletta...

11 giugno 1916 – ore 15.00
Il quadrato è formato. A un lato c’è una sedia per il morituro. Egli arriva ammanettato, accompagnato dal frate cappellano e dai carabinieri, ma nessuno lo sorregge.
Rifiuta di sedersi. Sta ritto, con le mani legate, con la mantellina su una spalla e il capo scoperto.
Dice a voce forte:
«Compagni, sono da un anno alla guerra. Non ho avuto paura mai. È stato in un momento di incoscienza che io ho compiuto la mia prima mancanza. E sarò fucilato. Serva di esempio a voi. Fate il vostro dovere, sempre!»
Il maggiore che presiede la cerimonia aggiunge con voce in cui trema la commozione:
«Ricordate le parole del vostro compagno!»
Il morituro non vorrebbe, ma gli vengono bendati gli occhi.
Egli dice ancora, forte:
«Non ho mai avuto paura. Non ho paura. Puntate bene!»
Il maggiore legge la lunga sentenza. Chi l’ha scritta doveva ricordarsi che ogni parola prolunga l’agonia spaventosa del condannato.
Ad un certo punto il morituro interrompe:
«Signor maggiore, non ho bene inteso. Favorisca ripetere».
Una sola forza sostiene quest’uomo: dimostrare che non è un codardo, egli, che è condannato «per codardia, a mente dell’articolo 92 del codice penale per l’esercito».
Quando la lettura è terminata segue un attimo che è eterno. Il tempo è sempre uguale?
Il morituro sporge il petto e il mento, nella sdegnosa offerta. Il capitano aiutante maggiore compie il gesto fatale.
I soldati hanno puntato bene. Un solo grido di strazio che si spegne rapido. Le alte erbe lo coprono tutto.
Ha avuto una sola pallottola. Al cuore.
Quattro non hanno voluto uccidere.
I carabinieri gli tolgono le manette, che sono la costrizione della libertà.
Dal Diario di Attilio Frescura


Intrigo a Londra



Intrigo a Londra di Tommaso Galloni

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Presentazione
Un giallo che si legge come un film di Alfred Hitchcock. Sembra di vivere le stesse atmosfere di L’uomo che sapeva troppo. La trama si svolge in un Londra algida, anonima, priva di calore.
Intrigo a Londra è un thriller che possiamo annoverare nel filone della così detta Detective Story rovesciata, nella quale i colpevoli sono noti subito e la suspense si focalizza sullo svolgimento dell’avventura e sul modo per sfuggire alla minaccia di morte che aleggia sull’eroina di turno.
In una Londra di inizio 1900, durante un ballo per festeggiare la sua maggiore età, Dalya Ellis, dopo essersi appena fidanzata con Ronald Bennett, incomprensibilmente lascia la propria casa seguendo Jason Carter, di cui aveva respinto la domanda di matrimonio e verso il quale provava anche avversione fisica.
E, quando il fidanzato la ritrova, afferma di non conoscerlo e di non averlo mai visto. Che mistero si cela dietro a tutto ciò? Quando la ragazza lo scoprirà per lei inizierà un vero e proprio incubo, perché colui che vuole il suo male è la persona che lei ama di più.
Incipit
Due lunghe file di vetture e di automobili dirette a Dacre Square, Hyde Park, depositavano le persone che le occupavano avanti alla casa N. 4 e si disponevano ad attendere fino alle ore piccole i rispettivi proprietari per ricondurli a casa. La casa n. 4 era sfarzosamente illuminata e l’eco della musica giungeva al di fuori, fino ad una certa distanza.
Un uomo ed una donna passarono parecchie volte davanti alla casa in questione. La donna si aggrappava al braccio dell’uomo e gli sussurrava ripetutamente delle frasi, come per persuaderlo a desistere dal suo intento. L’uomo non rispondeva e continuava a guardare cupamente la casa illuminata.
— Inutile, Owen, non possiamo far nulla per questa sera. Meglio andarcene! — supplicava la donna. — Non vi riceverà...
— Mi riceverà! — interruppe l’uomo.
— Andate pure a casa, Mary, non avete nulla a che fare con questo voi, mentre per me si tratta o della fine del gioco o del principio di un gioco nuovo. In ogni caso, non voglio immischiarvici. Dovete pensare a voi stessa ed alla vostra creatura. Andate a casa e lasciatemi.
— Che cosa volete fare? — chiese la donna sempre in un accento supplichevole.
Si erano allontanati un pò dalla casa illuminata ed erano giunti quasi all’angolo della piazza. L’uomo fissò con uno sguardo smarrito le vetture. Era abbastanza giovane, ma i suoi capelli erano diventati grigi anzitempo e la sua fronte aveva i solchi profondi dell’uomo tormentato da una grave preoccupazione. La donna sembrava anche più giovane ed entrambi erano vestiti miseramente.
— Si può aver accesso alla casa anche dalla parte del parco — mormorò l’uomo. — C’è una porta nel muro di cinta che generalmente è chiusa a chiave. Proverò da quella parte. Se sarà chiusa, cercherò di scavalcare il muro.
— Non vi approvo, non otterrete nulla — fece la donna. — Perchè non aspettare un momento più tranquillo? Questa sera la casa è affollata e non avrete modo di vederlo.
— E’ più probabile che lo veda questa sera che un’altra sera. Non bisogna che abbia modo di mettersi in guardia. Questa sera potrei svergognarlo anche in presenza dei suoi amici, potrei dire a tutti quei signori che mi ha derubato e che ha rovinato voi e la nostra creatura. La figlia sua è veramente fortunata... Quelle vetture, quella musica, quella folla sono tutte in suo onore....
— E’ il suo compleanno, non è vero? — chiese la donna dirigendo di nuovo lo sguardo verso la casa.
— Sì, compie oggi ventun anni, esce dalla minore età — replicò l’uomo con amarezza — ed oltre alla fortuna di suo padre ha una sostanza propria di sei cifre rotondette. E’ privilegiata, Mary, mentre la nostra creatura dovrà morire di fame a meno che non riesca a combinare qualche cosa. Ed ora — fece egli muovendo risolutamente verso la casa — ora vi domando se credete che io sia in diritto o no di agire?
— Dio solo sa se avete pieno diritto di ottenere qualche cosa da quell’uomo, Owen, ma non dovete correre dei rischi. Me lo promettete?
— Intendo vedere questa sera ad ogni costo Farley Ellis. Ad ogni costo, capite. Anche se dovessi forzarmi la via tra i suoi ospiti. Andrò cautamente dalla parte del parco, e voi non avrete a temere che mi succeda qualche cosa. Buona notte, Mary. Forse avrò delle buone notizie, quando vi rivedrò.
L’attirò a sè e la baciò, in quell’angolo solitario della piazza ed ella, più tardi, ripensando a quel bacio, ebbe l’impressione che fosse stato come un bacio di addio. Owen voltò l’angolo e risolutamente prese la via del parco, oltrepassò una porta ed in pochi minuti fu nel parco stesso.
Una volta al sicuro, fra le ombre, trasse dalla tasca un revolver e lo esaminò. Guardò a destra e a sinistra per garantirsi della solitudine, di nuovo rimise l’arma in tasca, e voltò a destra. Questa volta non prese delle precauzioni. Avanzò di buon passo da uomo determinato.
Le case di un lato di Dacre Square davano posteriormente verso il parco. La casa segnata con il numero 4 era una di queste. Il giardino piuttosto lungo era circondato da un muro alto sette od otto piedi, che formava il muro della parte esterna del parco.
Owen contò le porte, si fermò avanti a quella che cercava, e misurò con lo sguardo l'altezza del muro con l’intento di scavalcarlo. Ma con sua grande sorpresa, urtando col piede la porta, constatò che cedeva e così entrò nel giardino senza aver fatto il minimo sforzo.
Sicuro di avere il revolver pronto a portata di mano, chiuse pian piano l’uscio e si ritirò nell’ombra per guardare la casa, anche da questa parte sfarzosamente illuminata. Dalle finestre aperte poteva vedere benissimo le coppie dei ballerini passare da una finestra all’altra, e le dame ed i cavalieri conversare a gruppi in questa o in quella sala.
Frattanto Dalya Ellis, la ragazza in onore della quale veniva dato quel ricevimento, radiante e felice conversava presso una delle finestre delle sale, e più di un paio d’occhi la fissavano con ammirazione.
Era in realtà adorabile, gaia, raggiante per la festa che le veniva fatta, per i voti che venivano formulati attorno a lei, e soprattutto per il benessere dato dalla prosperità. Forse sino allora non un suo desiderio non era stato esaudito.
Aveva scorso i suoi ventun anni in un sentiero fiorito, e non aveva mai conosciuto una difficoltà. Eppure, cosa strana, la sua faccia si turbò quando un uomo avvicinandosi a lei le sussurrò qualche cosa a bassa voce.
A prima vista lo si sarebbe giudicato uno straniero. Era alto, aveva gli occhi neri, profondi, e la sua pelle era abbronzata dal sole. Sino allora aveva girato da una sala all’altra guardando da destra a sinistra, cercando una certa faccia. Ora pareva che l’avesse trovata, e guardava la fanciulla con un’espressione dominatrice che invano cercava di nascondere sotto una forzata soavità di modi.
— Sapete già che cosa desidero dirvi, miss Dalya. Questa sera compite i ventun anni ed è mio vivo desiderio di presentarvi i miei voti, e congratularmi con voi. Potete immaginare quali siano i miei voti?
Ella non lo guardò. Le sue pupille cercavano ansiosamente nella sala qualcuno che le venisse in aiuto, ed era visibilmente turbata.
— Credo che siano i migliori, signor Carter — disse ella lentamente.
— Forse credete ancora qualche altra cosa, Dalya. Forse credete che v’amo... e sapete già che ho aspettato ansiosamente fino a questa sera la risposta alla domanda che vi ho rivolto.
— C’è sempre una stessa risposta — fece la ragazza guardandolo bene in viso. — Posso soltanto dirvi che mi dispiace moltissimo... ma che non vi amo.
— Vostro padre è di un’opinione diversa — rispose l’uomo — e se vi parlo così è perchè autorizzato da lui. Lo sapete, non è vero?
— Mio padre non è qui questa sera. E’ stato chiamato inaspettatamente altrove per affari. Abbiate la bontà di attendere il suo ritorno.
Il signor Jason Carter con le mani allacciate dietro il dorso guardava la fanciulla, lottando con la tentazione di stringerla fra le sue braccia, malgrado la folla che li circondava, e di baciarla suo malgrado.
Sapeva che la sua causa era disperata e per questo motivo, forse, la ragazza gli sembrava più attraente che mai. Nondimeno non si mosse ed ella approfittò del suo silenzio per esprimergli bene la sua intenzione.
— Voglio che vi persuadiate una volta per sempre che sono irremovibile nella mia decisione. Non avete indovinato ancora che un altro...?
— Certo che l’ho indovinato — fece egli — soltanto troverete che non è così facile liberarsi di me. In genere combatto per quello che voglio, miss Ellis, e generalmente vinco nella lotta. Non mi troverete cattivo se mi tratterete bene, ma quando incontro opposizione, in genere divento detestabile. Non credete preferibile far sì che questa non sia la vostra ultima parola?
— Anche legalmente questa sera sono una donna, padrona dei miei atti e della mia volontà, e posso senz’altro decidere ed agire a modo mio, signor Carter. Ho pronunciato l’ultima parola.
Egli rise forzatamente, s’inchinò e si allontanò. La ragazza lo guardò per un istante o due, poi sorrise ad un giovine che venne a chiederle un ballo. E con la leggerezza delle donne, mentre ballava con il suo cavaliere, cercava qualcuno che non aveva veduto ancora... qualcuno che smaniava di vedere.
E finalmente egli arrivò. Dalya lo vide sulla soglia, e di nuovo, con la perversità delle donne, lo evitò parecchie volte quantunque il cuore le battesse più celermente sotto l’elegante abito da sera.
Difatti, fu soltanto dopo una mezz’ora che il giovanotto potè toccarle la mano e fissarla bene nelle pupille. Coincidenza strana, il caso li aveva portati contro la stessa finestra presso cui un certo signor Jason Carter una mezz’ora prima le aveva parlato d’amore.
— Siete in ritardo, Ronald! — mormorò ella. — Vi aspettavo.
— Non mi fu possibile venire prima, e d’altronde non è troppo lusinghiero parlare qui tra tutta questa folla. Desidero parlarvi a quattr’occhi.
— Siete un ingrato! — rispose Dalya sorridendo. — Vi lamentate mentre sapete che vi aspettavo e vi cercavo, anche questa sera quando tutti si disputano una mia parola, un mio sorriso. Via! Mi vergogno di voi!
— Dalya, sapete che ho un’infinità di cose da dirvi.
— Ma non dovete tenermi così la mano, non pensate che siamo in pubblico? Se volete dirmi in fretta due parole, possiamo andare da questa finestra sulla terrazza e di là in giardino. Ma più di cinque minuti non posso concedervi.
— Siete un angelo, Dalya, e mi pento di quello che ho detto.
Aprì la finestra ed insieme uscirono sull’ampia terrazza da cui si scendeva in giardino. In fondo alla gradinata ella si fermò, graziosamente strinse attorno a sè le pieghe dell’elegante abito da ballo, e domandò a Ronald Bennett:
— Ebbene, che cosa avete da dirmi? Potete sbrigarvi in cinque minuti?
— Mille anni di vita, un milione di anni non basterebbero a dirvi tutto quello che vorrei! — esclamò egli guardandola con adorazione ed attirandola a sè. — Eppure questo discorso che potrebbe durare un milione di anni, può esser riassunto in due parole: Vi amo! Vi amo!
Dalya lo guardò con una tenerezza infinita ed in preda ad un ineffabile turbamento, bisbigliò:
— Vi amo anch’io, e non finirei mai di ripetervi quanto vi amo, Ronald! Solo che guardiate le mie pupille potrete leggervi la grandezza del mio amore.
Di nuovo egli l’attirò a sè e la baciò. Ella lottando si svincolò da lui e passò nel giardino. Ronald Bennett la raggiunse, poi si fermò accanto a lei e seguì la direzione del suo sguardo.
— C’è qualcuno! — bisbigliò ella.
— Qualcuno? Forse qualche altra coppia legata dagli stessi vincoli di affetto che ci uniscono?
— No, è un uomo solo. Volete andare a vedere chi è, Ronald?
Ronald Bennett si avanzò verso il punto da cui gli era sembrato che fosse venuto un rumore, poi si avanzò verso di lei esitando.
— Non c’è nessuno... Eppure mi era sembrato di vedere un uomo che assomiglia molto a vostro padre!
— Al babbo? — ripetè ella ridendo gaiamente e pure con una leggera espressione di sgomento. — E’ assurdo, Ronald! Mio padre è lontano più di cento miglia. Vi siete indubbiamente ingannato.
— L’ammetto — fece egli con poca convinzione.
Poi guardando la ragazza:
— Perchè siete così spaventata, cara? Sarà bene che rientrate.
Ma mentre la riconduceva verso la gradinala, si voltò parecchie volte verso il punto in cui aveva creduto di vedere un uomo.
Aveva creduto? No, era perfettamente sicuro di aver veduto un uomo che aveva la faccia di Farley Ellis, un uomo che l’aveva evitato scomparendo verso la direzione della casa.
Mentre rientravano nella sala, la zia di Dalya, miss Jane Ellis, mosse incontro alla nipote con un telegramma in mano, dicendo:

— L’ho aperto, cara, prima di essermi accorta che era per voi. E’ un telegramma di vostro padre.

Le Diaboliche



Le Diaboliche di Riccardo Austin

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Presentazione
Tre donne diaboliche e altamente pericolose si scontrano tra di loro. Un giorno l’esperta d’arte Patrizia Testa, proprietaria di due importanti negozi d’antiquariato, scopre in un’antica pendola del 600, scottanti documenti che fanno luce su una temibile e ramificata Setta Demoniaca.
Contemporaneamente viene ucciso un ispettore della Polizia di Firenze. Cosa hanno in comune questi due avvenimenti. A ricostruirne le fila è il dottor Giacomo Tornabuoni, esperto di medicina legale.
Un giallo magistrale. Un piccolo capolavoro in cui l’indagine poliziesca è contornata dal più fitto mistero.
Incipit
Quando si svegliò, Patrizia Testa si accorse di aver dormito tutto il pomeriggio. Evidentemente il lungo tragitto in treno, da Milano ad Arezzo, l’aveva stancata. Dalle finestre non filtrava nemmeno un po' di luce. Rimase ancora qualche minuto sdraiata a riordinare i suoi pensieri. Non era affatto scontenta della piega che avevano preso gli avvenimenti.
L’incontro in treno con il conte Ventimiglia e con il suo amico, il tenente del Sesto Reggimento Cavalleggeri di Aosta, Marco Salieri, era stato piacevole e, anche se le restava nel fondo un vago timore, era decisa a restare.
Sapeva benissimo cosa volevano da lei i due uomini e lei non si sarebbe tirata indietro. Era tanto tempo che non si concedeva una trasgressione e il conte Ventimiglia sembrava un uomo che sapeva fin troppo bene il fatto suo, e questa era già una garanzia, e anche Salieri, sebbene più timido e introverso, almeno a giudicare dalle apparenze, non era da buttare via.
Si affacciò alla finestra. Il vasto giardino che circondava la villa era immerso nell'oscurità su cui risaltavano le sagome nere delle querce secolari. Nell’ala nord della villa alcune stanze erano illuminate e in una di esse poteva distinguere una tavola apparecchiata per la cena. In piedi, accanto ad essa, due uomini stavano fumando. Evidentemente la stavano aspettando.
Un brivido di desiderio l’attraversò. Ciò che stava per vivere era assai più di una avventura ignota e tentacolare, era un mondo anche questo da esplorare. Non aveva mai fatto all’amore con due uomini contemporaneamente e, la sfacciata richiesta che le aveva rivolto il conte in treno, benchè l’avesse colta di sorpresa, quell’uomo sapeva leggere nella mente delle donne, anziché indignarla, l’aveva divertita.
C'erano istanti nei quali il fascino e il brivido del sesso la prendevano sin quasi a farla soccombere di fronte a quello strano potere maschile. Ma era un attimo: si riprendeva, sempre, giudicando quel brivido una semplice sensazione e, dunque, riusciva sempre a mantenere la sua libertà di azione.
Aveva scoperto, negli anni e nelle innumerevoli avventure che si era concessa, che gli uomini, riconoscenti alle donne per l'atto sessuale, lasciavano dentro di lei parte della loro anima. Che fossero timidi, imbronciati o beffardi, che l’amassero o la considerassero una puttana, le donavano, volenti o nolenti, sempre una parte di loro. Ma questo faceva parte della natura degli uomini: ingrati e mai soddisfatti.
Se li respingeva, la odiavano perché li aveva respinti e, quando, al contrario, li desiderava, loro la odiavano ancora, per una ragione o per un'altra. Erano tutti dei bambini insoddisfatti che anelavano ad avere la piena proprietà della loro bambola, inappagati da quello che lei concedeva, da quello che lei non poteva dare.
Si denudò e contemplò la propria nudità davanti a un grande specchio. Non sapeva esattamente cosa stava cercando. E, tuttavia, avvicinò la lampada in modo tale che la illuminasse meglio.
Le venne spontaneo pensare, come già le era capitato di fare, quanto fragile e indifesa sembrasse quando era completamente nuda. Dava l’idea di una giovane vergine, di una ingenua ragazza priva di esperienze sessuali.
Gli uomini le dicevano che aveva una bella figura, fuori moda in un epoca, quella fascista, in cui si ricercava la bellezza muliebre e non quella adolescenziale da ragazzo. Nè alta nè bassa, possedeva una grazia languida e fluente che si poteva definire bella. E, se ad una prima erronea impressione, dava l’idea di qualcosa di diafano ed etereo, ben presto ci si accorgeva del suo corpo scattante, dei suoi seni a pera con le punte rivolte in alto, di un ventre concavo e levigato, giovane, palpitante che sovrastava due bellissime gambe, agili e snelle nella loro femminile rotondità.
Pur avendo trentacinque anni, ne dimostrava venti. L’immagine davanti a lei la fece sentire immensamente felice e piena di speranze. Il suo corpo aveva ancora la lucida lucentezza di una fine porcellana. E, se una porcellana all’interno era vuota, non si poteva dire altrettanto di lei.
Si era laureata in Lingue e Letterature Straniere, parlava correttamente l’italiano, il francese, il tedesco, l’inglese e lo spagnolo, che poteva alternare come se fossero le sue madri lingue. Si era, dopo la laurea, specializzata in archeologia ed aveva aperto a Milano e a Firenze due negozi di antiquariato, tra i più importanti di Italia.
Tra i suoi passatempi, oltre agli uomini, vi era l’esoterismo. Anche in questo campo si era affermata con varie pubblicazioni sui più misteriosi riti pagani e su le sette demoniache.
Stava pensando a questo quando un colpo di tosse la riportò alla realtà della stanza. Una ragazza dai lunghi capelli neri, che le scendevano sino alla vita, le aveva approntato la vasca da bagno con acqua calda.
Patrizia Testa la osservò. Sotto la camicetta, che indossava su una gonna lunga dal vago sapore zingaresco, emergevano appena le punte dei piccoli seni. La donna si chiese se era il padrone di casa a pretendere che la fanciulla non indossasse il reggiseno. Tutto faceva ritenere di sì, ma ritenne opportuno di non indagare.
Si immerse nella vasca da bagno. Vi indugiò a lungo, poi, impaziente di incontrare i due uomini, si vesti in fretta. Indossò sulla pelle un leggero e lungo abito da sera che scopriva, con la profonda scollatura, la parte superiore del seno, sin quasi alle punte. Sarebbe bastato inchinarsi un po’ perché esso si rivelasse in tutta la sua bellezza.
Bussarono piano alla porta. Era Marco Salieri.
— Io e il conte abbiamo visto la luce. Mi sono permesso di venirla a chiamare …. Si è riposata?
— Sì grazie, — rispose la donna. — Mi dispiace avervi fatto aspettare. Deve essere molto tardi.
— Non molto. Sono appena le dieci.
— Ma, forse, avrete fame?
Aveva messo volutamente una punta di ironia nella voce e la frase poteva avere un significato ambiguo. Ma l’uomo non rispose ed entrò nella stanza senza chiedere permesso. Era indubbiamente bello e per quell’incontro aveva indossato un abito sportivo che metteva in risalto il suo fisico da atleta.
Restò in silenzio, e Patrizia Testa si disse che era difficile leggere in quel volto. Forse più difficile che leggere in quello del conte. Non lasciava trapelare le sue emozioni. Era impossibile capire se l’ammirasse e la desiderasse. Forse, per lui, quell’avventura era routine o forse no.
Si avviarono per un vialetto alberato, nel fondo del quale la donna scorse il conte Ventimiglia che dava loro le spalle e sembrava non essersi accorto che si stavano avvicinando. Quando gli furono vicini, si voltò, al rumore dei passi, e venne verso di loro sorridendo:
— Lei è bellissima, stasera. E, il suo abito le rende onore. Se non vado errato è un modello di Elsa Schiapperelli.
— Si intende di moda?
— Anche. Ha riposato bene?
— Sì, e mi scuso per essermi svegliata così tardi.
— E’ stato un viaggio estenuante. E il treno non era certo molto confortevole.
Si misero a tavola.
La cena fu piacevole e gli argomenti trattati furono i più disparati. Parlarono dell’architetto Giuseppe Terragni che aveva iniziato a Como la costruzione della Casa del Fascio, della rivolta contadina ne El Salvador, soppressa con un massacro, della posa della prima pietra della città di Littoria, della proibizione da parte della Chiesa dei libri di Benedetto Croce, della vincita delle elezioni in Germania del Partito Nazista.
A questo proposito, il conte Ventimiglia, con gli occhi sfacciatamente posti sul seno della sua ospite, disse:
— Conosce la mistica nazista?
— Confesso di non essermi interessata di questo partito politico.
— Per lei che è amante dell’esoterismo, dovrebbe. Il misticismo nazista è un movimento völkisch basato su radici ideologiche mistiche che maturano dalle idee di Arthur de Gobineau, Guido von List, Jörg Lanz von Liebenfels, la cui influenza sul nazismo storico è fortemente comprovata. La Teosofia e la Thule-Gesellschaft sono state viste da Hitler come importanti figure e organizzazioni del misticismo nazista, che le considera fondamentali. Vi è una reale connessione fra l'autentica tradizione occulta tedesca e il pensiero nazista.
— Interessante, ma all’intellettualismo io preferisco l’azione, la ricerca sul campo di oggetti occulti, la prova di fenomeni demoniaci, la scoperta di sette occulte dedite al Satanismo.
— Sa che la Toscana è piena di misteri, segrete, leggende, fantasmi e posti demoniaci?
Patrizia Testa sorrise dentro di se. Lei era toscana ed abitava a pochi chilometri da Arezzo, ma non voleva che il conte sapesse tutto ciò. Per cui, sentì la sua voce che diceva:
— Sì, e non le nascondo che mi piacerebbe visitare qualcuno di questi posti.
— Solo in provincia di Arezzo ne abbiamo una infinita. A Camaldoli, ad esempio, può trovare la leggenda della processione dei monaci biancovestiti che salgono al cielo. A Borgo alla collina, nella chiesa di Donato a Borgo, può trovare il corpo di Cristoforo Landino, umanista, commentatore di Dante, morto nel 1498 e il cui corpo non si è mai corrotto. Sembra morto ieri. A Chiusi della Verna, nel Convento, vi sono le tracce della lotta che San Francesco ebbe con il demonio. A Cortona, nel Santuario di Santa Margherita, come nel caso di Cristoforo Landino, si può ammirare il corpo intatto della santa. A Monte San Savino, località Vertighe, vi è il Santuario piovuto dal cielo e privo di fondamenta. E a Lucignano d’Arbia nelle notti prive di luna si possono ammirare le Anime Bianche, creature evanescenti, avvolte in tuniche bianche che, con un lumino in mano, attraversano il paese.
Improvvisamente l’uomo le posò una mano sulla pelle nuda della sua spalla, tanto avanti che le sue lunghe dita sfiorarono lievemente con la punta l’inizio del seno. Un brivido di piacere la percorse. Si domandò se provocarlo e abbreviare l’attesa. La tentazione era più forte di quanto non volesse riconoscere e la certezza di cedervi le stava provocando già un piacere altrettanto tangibile di quello che avrebbe provato tra poco quando si sarebbe slacciata da sola il vestito o avrebbe lasciato a loro il compito di denudarla. Ma poi si disse che l’attesa stessa era una sottile voluttà.
— Ho sentito dire di una chiesa …..
Il conte la interruppe:
— Si riferisce alla chiesa di San Bernardo a Montepulciano?
— Lei mi legge nel pensiero!
— Non poteva essere altro che quella, per un’intenditrice come lei. Domani mattina la farò accompagnare là dal mio autista, ma ora non ritiene che sia venuto il momento di appartarci con il tenente Marco Salieri.

Il conte Ventimiglia allungò una mano sui seni di Patrizia Testa, liberi sotto il vestito e glieli strinse delicatamente. Quasi una impalpabile carezza. Una ondata di calore invase la donna. Mai nella sua vita aveva provato la stessa sensazione al contatto della mano di uomo. Sfiorava una piccola parte di lei, ma sembrava le afferrasse l’anima.

Il Mistero del Teatro della Morte



Il Mistero del Teatro della Morte di Paolo Trenti

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Presentazione
La sera in cui Brian Clarke rifiuta la proposta di matrimonio della bella e affascinate prima donna del Teatro Garrick, Sarah Siddons, la stessa viene trovata morta per avvelenamento.
Le indagini dell’ispettore di Scotland Yard, Seton, si appuntono subito su pochi sospetti ed egli va avanti nella sua indagine convinto di aver individuato il colpevole o i colpevoli, ma nel finale della storia, con sua grande sorpresa si deve ricredere.
Come si deve ricredere il lettore, che sarà sorpreso anche lui per l’inaspettato finale.
Un giallo atipico che si svolge nella Londra del primo novecento, all’interno di un teatro. Una lettura piacevole, scorrevole, che ci farà amare i suoi protagonisti e che rispecchia in pieno i canoni della Detective Story.
Ma che cosa è una detective story?
L'elemento fondamentale di una detective story è la soluzione di un mistero, un mistero i cui elementi sono presentati in maniera chiara al lettore all'inizio della storia e la cui natura è tale da suscitare la curiosità del lettore, una curiosità che viene ripagata alla fine.”
(Ronald Knox Best Detective Stories, 1939)
Incipit
Durante il lungo percorso nella luce del sole mattutino i pensieri di Brian, quella fuga insensata, Sarah, la sua passione, si erano dissipati come nebbia, ed egli era eccitato come un ragazzo che inizi un viaggio verso una meta ignota. Passata Eastbourne tutto era svanito, tranne il suo desiderio per l’attrice. Aveva sorriso guardando fuori dal finestrino.
Sotto, sulla strada, era passata una luccicante banda di arlecchini. Ne era salito un suono variopinto, e Brian aveva sorriso ancora compiacendosi della musica, del fragore e del bagliore della banda, del movimento dei buffoni vestiti di rosso, oltre il parco. La folla si spingeva allegramente fuori della chiesa. Come mai, era domenica? Il tempo per lui non esisteva.
Lungo la costa, le donne, nei loro costumi castigati, azzurro e lillà, si muovevano allegramente, era tutto imbandierato e tutto volteggiava agile alla luce del sole.
E al di là di tutto questo c'erano i silenziosi pendii della collina, c'era Sarah. La prima attrice del Teatro Garrick di Londra, la diva che mandava in visibilio folle di spettatori, soprattutto nella scena finale del primo atto, in cui si liberava di tutti i suoi vestiti, rimanendo completamente nuda, sarebbe stata sua.
Era tutto così meraviglioso che Brian riusciva ad essere paziente, nonostante il desiderio per la donna si facesse sempre più pressante. Un desiderio che era nato all’improvviso, in un momento di debolezza di Sarah. Non sapeva esattamente cosa era successo, ma, all’improvviso, una sera, Sarah era piombata nel suo studio ed egli aveva colto nei suoi occhi un’ombra di tristezza. Se ne era meravigliato perché la donna non sembrava proprio il tipo della donna romantica o introversa.
Ma quello sguardo, quella sera, erano velati da una strana ombra e mentre lo fissavano si erano fatti scuri come un cielo pieno di nuvole. E, in quelle nuvole, egli aveva scorto, forse per la prima volta, la sua vera essenza.
E, nel colore di quegli occhi, grigi, verdi, azzurri, neri, non avrebbe saputo dirlo, vide le nuvole, la pioggia, il temporale, la bufera ma anche la luce di rossi tramonti e le folate di un vento caldo e torrido: era come se in lei ardesse una fiamma di cui forse non era consapevole.
Non aveva detto una parola. Lo aveva attratto a se e lo aveva baciato.
Aveva sospirato profondamente, elettrizzato a quel pensiero. Ma non doveva essere impaziente. Il treno aveva rallentato nella città dove i buffoni vestiti di rosso, gli uomini vestiti ridicolmente d'azzurro e tutte le donne dai vestiti sgargianti, che erano uscite dalla chiesa, si agitavano come se la strada fosse una bolgia infernale.
Il treno era scivolato via avvicinandosi alla stazione centrale. Ancora un attimo e fu nella sudicia stazione. Il giorno splendeva e Brian venne afferrato dall'ansia. Sentiva il vento gonfiarsi sotto di lui e si era guardato intorno.
Al di là della spiaggia, il mare era azzurro come un fiore di pervinca, ravvivato qua e là da vele d'oro, bianche e sanguigne. In piedi sulla banchina, si abbandonò alla brezza ed al mare, sentendosi come una delle vele purpuree, come se ne avesse fatto parte.
Fuori dalla stazione, a sinistra si ergeva la fortezza rotonda, elegante, solida, solitaria. Al di là, comparivano prati e boschi. Le case si affollavano su un lungo viale per dargli il benvenuto.
Mentre guardava nella foschia l'estremità del molo, grandi schiere di nuvole pesanti scagliarono la loro ombra su Brian che ebbe un tremito nel vento freddo. Sulla pianura vicino a Eastbourne il vento gemeva come l'accordo di molti arpe. Tutto il cielo era grigio. Brian aveva atteso triste alla stazione di Eastbourne, che il vento freddo spazzava con violenza. Era domenica, la stazione e le strade vuote erano prive di significato. Brian, indossato il soprabito, s'era seduto. Tutta l'esaltazione della mattina se n'era andata, benché brillasse ancora una grande speranza. Aveva dormito solamente due ore, la notte. Era svuotato, come un uomo che dopo essersi ubriacato di gioia, tenti di disintossicarsi.
Poi, la vide. Improvvisamente il cuore di Brian si svegliò cominciando a pulsare con violenza.
— Tu qui? — aveva esclamato con uno strano tono.
Brian si era sentito invadere da una lucida indifferenza, come se avesse preso qualche calmante. Era meravigliato di se stesso. Sembrava che ogni fibra del suo corpo fosse stupita dall’improvvisa calma che lo aveva pervaso.

E constatò, con tristezza, che egli non amava quella donna. La desiderava, soltanto.

Il Rubino di Mata Hari



Il Rubino di Mata Hari di Owen J. David

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Presentazione
Una sera durante un party viene rubato il rubino di Mata Hari dato in prestito da Riccardo Sicardo alla bella Roberta Marano. Nell’Italia fascista del 1934 l’investigatore privato Nardini svolge le sue indagini per dipanare quello che sembra un caso irrisolvibile. Il finale sarà per i lettori una vera sorpresa.
Giallo atipico, abbiamo il morto ma su questo non indaga nessuno. E’ il furto quello che interessa e su cui ruotano le avventure di donne belle ed affascinanti.
Incipit
Il giorno in cui avvenne l’arresto della danzatrice Mata Hari, Parigi visse una delle sue grandi giornate. La guerra, che pure aveva abituato gli animi a tutti i colpi di scena, registrava pochi avvenimenti di ordine politico e mondano che potessero sollevare un’impressione più sensazionale, dalle anticamere dell’Eliseo ai grigi e fumosi cantieri della «banlieue» parigina.
Il nome della baiadera indiana risuonava nei discorsi di tutti. Ognuno immaginava il suo corpo oscuro e fulvo, bruciato dal fulgore dei brillanti, consacrato agli amori dei ministri e dei principi, ora disteso con la sua lunga dolosità felina sul duro assito del carcere di St. Lazare.
Per ricordare un simile trambusto, un uguale turbamento della fantasia popolare, bisognerebbe risalire con la memoria al giorno dell’arresto di madame Marguerite Jeanne Steinheil, famosa per aver avvelenato Félix Faure per conto del sindacato ebraico.
Nelle prime ore del mattino, un drappello di Polizia guidato dal commissario Triolet — funzionario che già più volte aveva condotti a buon termine incarichi delicati e missioni di fiducia — entrò improvvisamente all’hotel Alhambra, senz’alcun apparato di forza, nè visibile nè dissimulato. Mentre una coppia di agenti in borghese rimaneva presso l’entrata, e l’altra si avvicinava ad un tavolino per sfogliarvi macchinalmente una rivista, il commissario Triolet, rivoltosi al «bureau», chiese di parlare al gerente dell’albergo.
Un portiere, di quelli ancor troppo inesperti per riconoscere con un’occhiata gli uomini della Polizia, si mise a contemplare sorridendo le sfere d’una pendola, e con un garbo ironico, nel quale si tradiva tutto il suo disprezzo per quel visitatore ingenuo il quale supponeva che il direttore di un albergo elegante fosse già levato a quelle ore del mattino, rispose al commissario Triolet:
— Vogliate tornare verso le dieci. Solo allora il nostro direttore potrà ricevervi.
Monsieur Triolet, con uno di quei gesti risoluti e brevi degli uomini avvezzi a parare tutte le fughe, allungò sotto il naso del faceto portiere la sua tessera di Commissario speciale, che spense come d’incanto il serafico sorriso aleggiante su le labbra del giovine malaccorto.
Questi si precipitò al telefono, e pochi minuti dopo monsieur Danzac, balzato dal letto in fretta e furia, scendeva a ricevere il Commissario, con il quale non ebbe che un breve scambio di parole, pronunziate a bassa voce. Poi, accompagnati da una coppia d’agenti e seguiti a distanza dagli altri due, salirono nel corridoio dov’era la camera della sedicente contessa Mac Léod.
Il Commissario, decisamente, battè con le nocche due colpi all’uscio.
Nessuno rispose.
Un gruppo di camerieri, di facchini e di cameriere dell’albergo, messi in allarme da quella novità mattutina, incominciavano a raggrupparsi, bisbigliando, in fondo al corridoio.
— Andate via! — fece monsieur Danzac con un gesto autoritario. — Non avete altro da fare.
E il gruppo si sparpagliò rapidamente, salvo riformarsi poco dopo.
Il commissario Triolet diede nell’uscio due colpi più energici. Una voce assonnata rispose:
— Che c’è? Dormo, perché mi disturbate?
— Aprite!
La voce della donna giungeva assai confusa attraverso il doppio uscio.
— Non ricevo nessuno! Lasciatemi in pace.
Il Commissario si volse al direttore dell’albergo:
— La stanza ha un’altra uscita?
— No, nessuna altra uscita.
Allora il Commissario diede nell’uscio un altro colpo assai più lento, e pronunziò la formula magica:
— Aprite, in nome della legge!
Di nuovo un prolungato silenzio. Ma s’intese un leggero tintinno, come d’un bicchiere che urtasse la caraffa posta sul tavolino da notte.
Il Commissario guardò monsieur Danzac, e questi guardò lui, forse pensando simultaneamente che la donna avesse trangugiato qualche veleno, oppure avesse afferrata rapidamente una rivoltella per ricevere i rappresentanti della Legge.
— Se non aprite butteremo giù la porta, — disse con visibile nervosità il commissario Triolet.
La voce della donna, più vicina all’uscio, rispose:
— Un istante, apro.
E s’intese il piccolo catenaccio di sicurezza scorrere nel suo congegno, che produsse un colpo secco.
La Polizia irruppe nella stanza illuminata.
La bella donna, sorpresa nel sonno e balzata dalle coltri del tutto nuda, stava tornando verso il letto, su l’orlo del quale, prima appoggiò una mano, poi sedette.
I suoi capelli scompigliati le cadevano con disordine su gli occhi.
II primo gesto che fece fu di aggiustarsi i capelli, poi guardò quegli uomini con uno sguardo obliquo, pieno di lampeggiante furore.
Monsieur Danzac si teneva discretamente in disparte.
Con i palmi delle mani lunghe e scure Mata Hari si strofinò gli occhi. Poi diede una scrollata ai suoi capelli, che in parte le liberarono la fronte. La sua schiena, percossa dal fulgore della lampadina elettrica mandava una specie di raggiera.
Interamente nuda, scolpita nella perfezione delle sue forme, un pò curva su la piegata potenza del grembo, con i suoi affusolati stinchi di danzatrice in cui pareva luccicasse tutta la nervosità del suo corpo violentemente immobile, Mata Hari guardava la Legge della terra nemica, fissava quegli uomini armati dal terribile potere della vendetta, che venivano in tre per impadronirsi di una donna senza veste e senz’anima.
Li fissò con un disprezzo così profondo, che il suo sguardo fece per un istante abbassare gli occhi dell’impassibile commissario Triolet, poi gonfiò di respiro le sue levigate costole appena tralucenti, e sollevando le mani alle tempie, in modo che le sue scure ascelle si scoprirono, trasse dalla buia profondità del suo grembo sussultante un riso che ruppe il silenzio della stanza come una frantumata pioggia di cristalli.
Femmina sino in fondo all’anima, benché sapesse che non c’era più scampo, si piegò sino a toccare con l’apice dei seni la punta dei ginocchi, poi, divaricando sconciamente le cosce per denudare il suo grembo folto e carnoso, che pareva quasi umido, buttò in aria le gambe una dopo l’altra, con elasticità acrobatica, ricadde orizzontalmente nel letto, e senza ricondurre sopra di sé la coltre vi rimase in tutta la sua nudità, ferma e supina.
Quei tre uomini, sebbene avvezzi alle più strane attitudini che la delinquenza comune o la delinquenza eccezionale assumevano di fronte al loro intervento, allibirono di tanta insolenza. Essi non erano preparati ad entrare nella camera di una donna, che forse per segnare un feroce scherno al potere della Legge li accoglieva senz’alcun velo sopra il suo corpo inverecondo, e sdegnava di ricoprirsi anche nel modo più sommario, come avrebbe fatto qualsiasi altra donna colta in simili circostanze, prima di aprire l’uscio alle intimazioni del Commissario.

Triolet nel suo rapporto sull’episodio scrisse che l’unica cosa che aveva colpito la sua fantasia era lo splendido anello che la donna portava al dito.