lunedì 11 aprile 2016

L'Urlo della Morte



L'Urlo della Morte di Anna Caterina Grees

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Presentazione
Nel 1688 in India viene rubato un diamante di notevoli dimensioni. Il diamante della Dea. Su questo episodio si snoda una storia che dal diciassettesimo secolo ci porta alla Roma dell’anno 1911. Qui, una sera, durante un ballo in maschera, viene uccisa la bellissima moglie del signor Fraccaroli, milionario italiano.
Cosa lega la morte della signora Fraccaroli al furto di un diamante avvenuto secoli prima? Che parte ha in tutto questo la setta dei Beati Paoli, un’organizzazione segreta, millenaria, sorta per punire ladri e assassini restati impuniti?
E perché sono morti uno dopo l’altro, per malattia, i figli di un noto uomo politico?
Ad indagare è una ragazza, una ragazza acqua e sapone con un pizzico di audacia.
Incipit
Verso sera il palazzo del moghul di Golconda fiammeggiava e i saloni, sfarzosamente illuminati da miriadi di torce ardenti e da altari dorati, sui quali bruciavano i profumi più gradevoli, pullulavano d'invitati.
Ministri, favoriti, notabili, s'aggiravano dovunque, scintillanti di ori, di perle e di diamanti, mentre turbe di paggi, del pari sfarzosamente vestiti, circolavano senza posa con vassoi d'argento carichi di gelati, di dolciumi, di deliziosi manghi, di banani e di ananas conservati nella candida neve fatta venire dalle elevate cime dei Ghati.
Nella gran sala dei ricevimenti, ricca di ornamento d'oro, di arazzi, di lapislazzuli e di onici incrostati lungo i colonnati, turbe di ballerine del Sacro Tempio di Rama-Sitra, adorne solo delle loro tuniche leggere e trasparenti che rivelavano la magnificenza dei loro corpi snelli e flessuosi, non attendevano che la comparsa del moghul per cominciare le loro danze.
I tre francesi, comodamente sdraiati su un soffice divano, chiacchieravano tranquillamente o scambiavano strette di mano e saluti con i più alti dignitari del principato, che si affollavano intorno a loro per conoscere gli usi e costumi della loro patria.
La loro tranquillità era però più apparente che reale. Forse solamente Jean—Baptiste Tavernier, avventuriero e all’occorrenza ladro, era veramente calmo fidando nella sua straordinaria abilità.
Di quando in quando i suoi due aiutanti, Louis Sevignac e Pierre Auteil, si scambiavano uno sguardo ed i loro occhi tradivano l'interna ansietà e l'agitazione che regnava nei loro animi, al pensiero di ciò che erano intenzionati a fare: rubare il diamante della dea Durga, della dea della creazione e della distruzione.
Quando il moghul comparve, i suonatori nascosti in mezzo a delle palme che occupavano un angolo, cominciarono a far vibrare le corde delle loro arpe, intonando una musica strana, dolcissima, languida che faceva fremere gli agilissimi e snelli corpi delle danzatrici, che nel turbine della danza mostravano i loro corpi seminudi.
Tutti gli sguardi degli uomini erano appuntati su di loro, ma il moghul, che forse non si divertiva molto a quella danza, aveva fatto un cenno di avvicinarsi a Jean—Baptiste Tavernier.
Avete dimenticato ciò che mi avevate chiesto questa mattina, monsieur?
A che cosa alludete, Altezza? – chiese l’avventuriero.
Avevate manifestato il desiderio di vedere il diamante della dea.
È vero, Altezza – rispose Jean—Baptiste Tavernier.
Se questa danza non v'interessa, seguitemi.
Posso condurre anche i miei amici?
Se sono desiderosi di vedere il diamante di luce al pari di voi, vengano pure. Anzi riceveranno da me un ricordo del loro soggiorno in Golconda.
Mentre nessuno faceva attenzione a loro, il moghul, aveva sollevata una ricca tenda che nascondeva una porta, inoltrandosi in un corridoio illuminato da alcune lampade con i vetri azzurri, che spandevano, sulle lastre di marmo bianco del pavimento, una luce che pareva proiettata da tante piccole lune.
Mentre Jean—Baptiste Tavernier discorreva col moghul, Sevignac si era accostato a Auteil.
Hai tutto? — gli chiese.
, – rispose l’uomo.
Anche i narcotici?
Ho portato con me la fiala.
E l'altra, quella che deve preservarci?
L'ho nella cintura.
Sii pronto, se perdiamo questa occasione saremo perduti, ricordatelo Auteil. Ne va della nostra testa.
— Noi riusciremo.
Ed i fazzoletti?
Sono qui, nella mia borsa.
Il moghul aveva cominciato a scendere una scaletta di marmo rosso, in fondo alla quale vegliava un soldato armato d'una specie di alabarda e si era arrestato dinanzi ad una porta di bronzo.
Apri, — disse all'uomo di guardia, — e accendi una torcia.
Dove ci conducete Altezza? — chiese Tavernier, che non riusciva a vincere interamente la sua emozione.
A vedere i miei tesori.
Il soldato, accese una torcia che si trovava infissa in un anello di ferro e aprì la porta.
Tavernier ed i suoi compagni si trovarono in una sala priva di finestre, con il pavimento, le pareti e il soffitto coperte da lastre di marmo azzurro che dovevano avere un tale spessore da sfidare i picconi più solidi.
Appena la torcia fu infissa in un bracciale di ferro che s'alzava nel mezzo della stanza, uno scintillio abbagliante avvolse il moghul, Tavernier ed i loro compagni.
Tutto all'intorno vi erano degli scaffali di bronzo dorato chiusi da vetri e dietro a questi si vedevano dei mucchi di diamanti d'ogni grossezza, i quali riflettevano vagamente la luce proiettata dalla torcia.
Tavernier, Sevignac e Auteil si erano fermati, guardando con stupore e con avidità, quelle ricchezze incalcolabili, strappate alla terra forse da centinaia d'anni.
Il moghul si era intanto voltato verso il soldato, dicendogli:
Chiudi la porta e non allontanarti per nessun motivo.
Sì, Altezza — rispose la sentinella, uscendo.
Quante ricchezze! — esclamò Tavernier, con voce soffocata. — Quanti milioni sono rinchiusi in quegli scaffali?
Molti di certo, monsieur — rispose il moghul, sorridendo.
Tutti diamanti delle vostre miniere, Altezza?
Sì, monsieur Tavernier.
E il diamante della dea?
Ora ve lo mostrerò.
Il moghul si levò dalla cintura una piccola chiave d'oro e s'accostò ad una cassetta di bronzo che era situata in un angolo della sala, sopra un leone pure di bronzo, di statura gigantesca.
Prendete la fiaccola monsieur — disse, introducendo la chiave.
Mentre l’avventuriero si voltava per levare la torcia, si sentì cacciare nella mano sinistra un fazzoletto umido e sussurrare rapidamente agli orecchi:
Tenetevi pronto a turarvi la bocca ed il naso.
Era Auteil che aveva pronunciate quelle parole.
Il moghul aveva fatto scattare una molla e la cassa di bronzo si era aperta di colpo.
Ad un tratto, mentre allungava la destra per prendere il diamante della dea, si sparse attorno a lui un odore così acuto, che si sentì stringere perfino la gola.
Cosa fate? — chiese, volgendosi rapidamente e portando la destra al tarwar ricurvo, dall'impugnatura d'oro, che portava appeso alla cintola.
Intuì forse il pericolo ma gli mancò il tempo di evitarlo. Auteil aveva vuotato sul pavimento una piccola fiala che fino allora aveva tenuta nascosta nella mano e quel liquido misterioso aveva prodotto quell'odore così acuto, che soffocava e stordiva il principe.
Tavernier ed i suoi due compagni si erano rapidamente coperti i volti coi fazzoletti bagnati con il contenuto d'un'altra fiala, il cui liquido doveva neutralizzare gli effetti del primo.
Che cosa fate? — ripeté il moghul, impallidendo.
Non poté aggiungere altre parole. Era caduto fra le braccia di Sevignac come fosse stato fulminato.
Auteil, velocemente afferrò il diamante della dea e lo fece scintillare un istante alla luce della torcia.
Quel diamante era ben degno del nome che portava: essa fiammeggiava fra le dita increspate del francese, mandando bagliori accecanti.
Era uno splendido diamante, di un insolito e profondo colore blu, del peso di 112 carati, d'una purezza ammirabile.
Sevignac depose a terra il corpo inanimato del moghul, mise nella cassa di bronzo, al posto del diamante della dea, un foglio di ringraziamento per il moghul, poi si slanciò verso la porta di bronzo, percuotendola poderosamente.
Nessuno aveva pronunciata una parola né staccato il fazzoletto che tenevano compresso sulle labbra e sul naso. Tutti però avevano estratte le rivoltelle.
Udendo a bussare, la sentinella aveva subito aperto.
Vedendo il moghul a terra e quei tre uomini armati, aveva afferrata l'alabarda, credendo che avessero assassinato il suo principe, ma l'acuto odore che aveva invasa tutta la stanza, lo raggiunse.
Vacillò lasciandosi cadere l'arma, portò le mani alla gola, poi a sua volta cadde, mandando un sordo grido.
La via era libera. Tavernier, Sevignac e Auteil, pallidi, commossi, si erano slanciati verso la scala dove l'odore emanato da quel liquido misterioso non si era ancora diffuso.
Fuggiamo subito — disse Auteil, nascondendo il diamante nella larga cintura che egli stringeva i fianchi.
Ed il moghul? — chiese Tavernier, con voce soffocata. — Non correrà alcun pericolo, rimanendo là dentro.
Nessuno, amico mio. Il narcotico che io ho adoperato non produce che una leggera sincope che non dura più di due o tre ore.
Poco dopo erano nei superbi giardini del palazzo principesco, ricchi di chioschi di pietra bianca, di fontane che mantenevano una frescura deliziosa, di aiuole coltivate a rose del Cascemir che spandevano acuti profumi e di boschetti di magnolie, di banani, di betel e di lauri superbi.
Venite – disse Auteil. — Il nostro rifugio non è lontano.
Si diressero a passo di corsa verso le mura che circondavano i giardini e che li separavano dai recinti destinati agli elefanti ed ai cavalli del moghul.
Già stavano per raggiungerle, quando un indiano, posto a guardia della cinta, sbarrò loro il passo, abbassando la picca che teneva in mano.
Largo! — disse Auteil, alzando la rivoltella.
No, non far fuoco! — gridò Sevignac.
Tavernier, a cui premeva che nessuna detonazione spargesse l'allarme nel palazzo, con uno slancio fulmineo si scagliò sulla sentinella, vibrandogli un pugno così poderoso sul cranio, da farlo stramazzare al suolo senza che avesse avuto il tempo di mandare un grido.
Alle mura — disse.
La cinta non era che a pochi passi e non più alta di due metri.
Auteil, che era il più agile, la superò per primo, lasciandosi cadere dall'altra parte. Con un rapido sguardo si assicurò che non vi era nessuno a guardia delle scuderie e riprese la corsa.
A centocinquanta passi aveva veduto delinearsi il loro rifugio. Tavernier e Sevignac, in preda ad una crescente ansietà, lo avevano seguìto tenendo in pugno le rivoltelle. Erano pronti a tutto, anche ad aprirsi il passo con le armi.

Superata anche la seconda cinta, si trovarono nella loro capanna. Qui, si travestirono da indiani della casta dei paria, poi sparirono nella notte.

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