lunedì 11 aprile 2016

Il Male



Il Male di Anna Caterina Grees

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Presentazione
Avete mai osservato il congegno di un orologio? Ebbene il romanzo Il Male può essere paragonato al congegno di un orologio. La trama è perfetta. L’autrice si diletta a sviare il lettore seminando qua e là indizi che poi, sapientemente, riesce a sviare su altri indizi.
Una trama degna di Agata Christie. Una protagonista, la signora Barzini, che può essere paragonata a Miss Marple.
Una donna viene trovata uccisa in un appartamento vuoto. La prima domanda che si pongono gli investigatori è: chi è la vittima? Infatti ha il volto sfigurato e nessuno si fa avanti per riconoscerla. La seconda domanda è: chi l’ha uccisa? E qui i possibili assassini sono più di uno.
In una Milano degli anni venti si dipana una trama perfetta, ove ogni parola è messa al posto giusto per far funzionare al meglio una storia avvincente e piena di mistero. E, alla fine della lettura, se volgiamo il nostro sguardo alla narrazione nel suo complesso vediamo quanto ordine, quanta armonia, quanta diligenza si trovino in essa.
Incipit
Per natura non sono curiosa, ma allorché in una calda sera di settembre, mentre stavo per andare a letto, intesi fermarsi una carrozza davanti alla casa confinante con la mia, confesso che non seppi resistere alla tentazione di accostarmi alla finestra e di gettare uno sguardo nella strada, nascondendomi fra le pieghe della tenda per non farmi vedere.
La casa in questione, un bel palazzo signorile situato nel Parco Sempione, era vuota o almeno così credevo, avendo udito dire che il proprietario si trovava in viaggio, in Europa, con le sue figliole; pure la vettura si era fermata proprio davanti ad essa, come avevo supposto.
Il fanale pubblico che illumina, insufficientemente a dir vero, il nostro tratto di strada è alquanto discosto, sì che riuscii a distinguere solo approssimativamente i contorni di un uomo e di una donna, giovani entrambi, a giudicarne dalla snella agilità, e di apparenza civile, che scendevano a terra.
Osservai che egli salì subito i pochi gradini del peristilio per aprire la porta con la chiave, mentre lei si fermava un momento a pagare il cocchiere, e poi seguiva il proprio compagno nell’interno.
Come dissi, era notte, e non potei scorgere in viso nessuno dei due. Tuttavia, quando lo vidi entrare in casa, ebbi l’impressione che l’uomo fosse il signor Luigi Bassi, figlio maggiore del proprietario, e la donna ch’era con lui una congiunta qualunque.
Dieci minuti dopo, intesi aprirsi nuovamente la porta dei miei vicini. Sorpresa ed incuriosita, tornai alla vetrata, appena in tempo per vedere il giovanotto di poco prima allontanarsi a gran passi in direzione di Piazza Castello.
Era solo ed al pensiero che doveva aver lasciata una donna, forse una ragazza in quella vasta casa vuota, apparentemente senza luce e certo senza compagnia di sorta, osservai fra me e me che la cosa contrastava forte col carattere e con l’educazione del signor Luigi.
Un tal modo di trattare meglio si addiceva a suo fratello Spartaco, un ragazzo senza testa, una specie di figliol prodigo, che due anni innanzi aveva sposato una giovane dal passato, a quanto si diceva, discutibile, e da allora era stato messo al bando dalla famiglia. E facendo questa riflessione naturalissima mi cacciai fra le coltri, mentre l’orologio della mia camera suonava la mezza dopo mezzanotte.
L’indomani mattina, appena vestita, corsi alla finestra a dare un’occhiata al palazzo Bassi. Non una tenda era sollevata, non un’imposta aperta. Ho l’abitudine di alzarmi per tempo. Sul momento, questa constatazione non destò in me nè inquietudine nè sospetto.
Ma più tardi, dopo colazione, nel constatare che la grande facciata, tutta impenetrabile e silenziosa, seguitava a non dar segno di vita, uno strano turbamento cominciò ad insinuarmisi nell’animo.
Nondimeno, fino a mezzogiorno, cioè fino all’ora in cui ebbi occasione di scendere in giardino, non mi mossi e non feci nulla. Fu allora che, osservando le finestre posteriori di casa Bassi e constatando come fossero esse pure ermeticamente chiuse al pari di quelle anteriori, ebbi un violento tuffo al cuore e, fermata da prima guardia di polizia che mi passò a tiro, la pregai di suonare a quella porta.
Essa aderì, ma non ottenne risposta.
— Non c’è nessuno, — disse.
— Suonate un’altra volta, — insistei.
La guardia ricominciò, con identico risultato negativo.
— Lo vedete bene che la casa è vuota, — brontolò. — Del resto, lo sapevo, perchè abbiamo ricevuto ordine di sorvegliarla durante l’assenza dei padroni, e nessuno ci ha detto ancora di smettere.
— V’è dentro una donna, — protestai — ne sono certa ed ho la convinzione che questa notte sia successo qualcosa di molto grave.
Egli si strinse nelle spalle e stava per rimettersi in via; senonché, proprio in quella, ci accorgemmo tutti e due che una donna del popolo s’era fermata davanti alla casa in questione. Portava un involto sotto il braccio, ed il suo viso, eccezionalmente acceso e coi lineamenti sconvolti, spauriti, rispecchiava una emozione intensa: fatto tanto più notevole in quanto che, nelle circostanze ordinarie della vita, esso doveva essere, se non m’ingannavo, perfettamente inespressivo e insignificante. Del resto quella donna non mi era del tutto ignota; più volte anzi l’avevo vista entrare dai Bassi od uscirne.
Incapace di dominare l’agitazione che mi aveva presa, avanzai fino a lei e la interpellai senza cerimonie.
— Chi siete? Lavorate forse per la famiglia Bassi? E conoscete la signora che entrò qui questa notte?
Ella fece un gesto sbigottito, forse per la sorpresa di sentirsi rivolgere la parola d’improvviso, forse perchè la mia voce aveva involontariamente assunto un’espressione un poco brusca.
Indietreggiò con grande premura e credo che, senza la presenza del poliziotto, avrebbe tentato di darsi alla fuga. Invece rimase; ma il vivo rossore, che dava alla sua faccia un aspetto così fuor del comune, divenne anche più intenso. Aveva le guance e la fronte scarlatte addirittura.
— Sono la donna di servizio, — dichiarò. — Vengo ad aprire le finestre e a dar aria agli appartamenti.
Osservai che non aveva risposto alla mia seconda domanda e stavo per ripeterla, allorché intervenne la guardia.
— Allora la famiglia sta per ritornare?
— Non so, però lo suppongo, — disse la donna, ma il tono della sua voce mancava di convinzione.
— Avete le chiavi? — ripigliai, vedendola mettere la mano in tasca.
Essa non rispose e mi voltò la schiena, ma non prima che avessi colto a volo una espressione d’astuzia mista a dispetto, sostituitasi a quella di inquietudine estrema che l’aveva tenuta fino allora.
— Non capisco proprio perchè questo debba importare ai vicini, — borbottò girando un momento la testa per gettarmi un’occhiata cattiva.
— Gli è che, se avete le chiavi, — spiegò il poliziotto, — entreremo con voi, per vedere se tutto sia in ordine.
A queste parole la domestica avventizia fu presa da un tremito, ed io sentii raddoppiare la mia oscura emozione. Se qualcosa di anormale fosse realmente accaduto nel palazzo Bassi, ci tenevo assai ad assistere alla scoperta che io stessa avevo provocata. Ma le prime parole della donna caddero come una doccia fredda sulle mie speranze.
— Entrate pure; non mi fa nulla, — ella disse infatti al rappresentante dell’autorità, — ma non voglio consegnare le chiavi a quella là. Con quale diritto entrerebbe in casa nostra, se la domanda è lecita?
— Essa ha ragione, — dichiarò nel più burocratico dei toni il poliziotto.
E, passandomi davanti senza cerimonie, scese la breve gradinata laterale che conduceva alla porta del sottosuolo, vi entrò, seguito dalla donna, e si chiuse il battente alle spalle lasciandomi con un palmo di naso.
Rimasi là fuori, ferma, ad aspettare. Sentivo di averne quasi il dovere. Più di un passante s’arrestò un momento a guardarmi, tanto il mio atteggiamento, nella strada, senza cappello, con l’occhio inchiodato sulla facciata e tutta la persona fremente, appariva strano; ma io non me ne curai e rimasi imperterrita al mio posto.
Non avrei potuto a nessun patto rientrare in casa mia ad accudire alle mie faccenduole quotidiane se prima non mi fossi assicurata de visu che la giovane donna entrata per quella porta a mezzanotte, sotto i miei occhi, fosse viva e sana e che il suo ritardo nell’aprire le finestre dipendesse unicamente dalla pigrizia abituale nelle signore dell’alta società.
Alcuni passanti s’erano già fermati ad osservare, allorché la porta di servizio s’aprì con violenza e scorgemmo il viso spaventato della domestica che tremava dalla testa ai piedi, come una foglia.
— E’ morta! — gridò. — E’ morta! Aiuto! Agli assassini!
Avrebbe aggiunto dell’altro se il poliziotto non l’avesse presa per un braccio e trascinata nell’interno con un brontolio che somigliava forte ad una bestemmia repressa.
Anche questa volta egli fece per chiudermi la porta in faccia, ma io, più lesta di lui, avevo già preso lo slancio. Mi trovai nell’interno prima che avesse potuto impedirmelo, e seguii senza parlare i due.
Fu fortuna, perchè la donna, la quale impallidiva a vista d’occhio, cadde ad un tratto a terra come una massa inerte mentre arrivavamo nel vestibolo. Il poliziotto non era certo un individuo di risorse, di quelli che possano rendersi utili nelle contingenze difficili. Confuso, imbarazzato, non sapeva evidentemente da qual parte voltarsi e fu ben contento di poter lasciare a me l’iniziativa dei necessari soccorsi.
La povera creatura era svenuta, e, per prima cosa, la presi per le spalle e cominciai a trascinarla del mio meglio lontana dalla soglia, verso una panca del fondo, nell’intenzione di farvela sedere.
Ma, nonostante il mio vivo desiderio di assisterla, quando arrivai all’altezza del vicino salottino, vidi uno spettacolo così tragico, così terrificante che abbandonai senza volerlo il mio fardello umano.
Nella mezza oscurità, perchè la stanza in questione era unicamente rischiarata dall’uscio entro il quale si insinuava il mio sguardo, giaceva un corpo di donna in parte nascosta sotto un mobile rovesciato.
Non si distinguevano bene che la gonna e le braccia, allargate in guisa da formare una croce, ma all’aspetto rigido delle membra non era difficile indovinare che la disgraziata era morta.
Mi sentii mancare il cuore e fui ad un filo dal perdere io pure i sensi. Tuttavia il pensiero che l’opera mia si rendeva necessaria in quel momento, mi aiutò ad irrigidirmi contro l’atroce emozione. Con uno sforzo scossi la debolezza che mi aveva presa, e, voltandomi verso il poliziotto, esitante fra la donna di servizio e il cadavere, esclamai con vivacità:
— Via, amico mio, movetevi. Quella infelice là è morta, ma questa che vedete è viva, e bisogna farla rinvenire al più presto. Scendete in cucina a prendere una brocca d’acqua, se potete. Poi andate in cerca di una bottiglia di aceto o di essenza. Io resto qui accanto a lei per aiutarla. E’ robusta e spero che se la caverà in breve.
Il volto del poliziotto assunse un’espressione sospettosa.
— L’acqua andate a prenderla voi, che sarà meglio, — protestò. — E, poiché ci siete, aprite una finestra e gridate alla gente che chiami un impiegato di polizia e il giudice istruttore. Io non mi muovo certo da questa stanza finché non arrivi uno dei due.
Tanta prudenza mi parve esagerata, ma non era il caso di muovere obbiezioni, ed io mi disposi ad eseguire senz’altro la raccomandazione, compresa della convenienza di provvedere con la maggiore possibile sollecitudine.
— Salite al secondo piano, — egli mi gridò dietro mentre mi allontanavo, — e dite quanto occorre in poche parole. Se aprissimo la porta, quanti sono lì fuori farebbero ressa per entrare.
Salii i gradini a quattro a quattro, aprii una vetrata e constatai che la folla si era ingrossata al punto da invadere, oltre al marciapiede, più che la metà dello spazio destinato ai veicoli.
— Un ispettore di polizia! — urlai con quanto fiato avevo in corpo. — Fate chiamare un ispettore! E’ successo un accidente gravissimo, e la guardia che è già in casa domanda che si facciano venire subito il giudice istruttore e un impiegato della sicurezza pubblica.
Compiuto così il mio dovere verso le autorità costituite, mi ritirai dalla finestra e mi guardai intorno, in cerca di acqua.
Mi trovavo nella camera da letto di una donna, probabilmente della maggiore delle ragazze Bassi: un locale disabitato da parecchi mesi, dove era naturale mancasse tutto ciò che può servire in una circostanza simile.
Non infatti una bottiglietta d’acqua di colonia sul tavolino da toletta, non i soliti sali sul caminetto. Per fortuna, la conduttura dell’acqua funzionava regolarmente, avevo appena osato sperarlo, e trovai un piccolo bicchiere sui lavabo.
Lo riempii in fretta e mossi verso l’uscio. Nel traversare la stanza urtai col piede contro un piccolo oggetto che riconobbi per un guancialetto da spilli, di forma rotonda. Lo raccolsi istintivamente per quell’amore innato, quasi eccessivo, dell’ordine che non mi abbandona mai, neppure nei momenti più critici, lo deposi su un tavolo che trovai a portata di mano, ed uscii.
La domestica giaceva, sempre svenuta, in mezzo al vestibolo. Le spruzzai l’acqua in viso ed ebbi la soddisfazione di vederla ritornare subito in sé.
Provveduto così al più urgente, mi alzai e gettai l’occhio nel salotto. La guardia non s’era mossa dal posto dove l’avevo lasciata. In piedi accanto al cadavere, lo fissava come se temesse di vederselo scappare via.
Il carattere misterioso di questa terribile faccenda esercitava, mio malgrado, una specie di fascino sull’animo mio. Lasciai la donna, che ormai s’era completamente rimessa, e mi avvicinai al salotto, quando essa mi trattenne con uno strillo:
— No, no! non mi lasciate, per carità! Non ho mai visto niente di più spaventoso! Povera piccina! povera piccina! Perchè non le levano tutte quelle cose che ha addosso?
Essa parlava non soltanto del mobile che era caduto sopra la donna e che aveva la forma di un grande stipo, a compartimenti nella parte inferiore ed a scaffali in quella superiore, ma anche dei vari oggetti che ne erano usciti e giacevano a terra in frantumi, sparsi attorno al cadavere.
— Le leveranno, le leveranno, non dubitate, e presto, — risposi.
— Ma se per caso non fosse ancora morta? Tutto quel peso finirebbe per soffocarla. Volete che la liberiamo insieme? Sono pronta ad aiutarvi. Adesso non ho più nulla, le forze mi sono tornate e mi sento in grado di darvi una mano.
— Sapete chi sia? — le chiesi.
— Io?! — ella esclamò sbattendo forte le palpebre e cercando a fatica di sostenere il mio sguardo. — O come volete che lo sappia? Sono entrata con la guardia, e non mi sono mai avvicinata a quella poveretta più di adesso. Cosa mai può farvi supporre che la conosca? Faccio la domestica avventizia, e mi chiamano qui a quando a quando per aiutare la servitù nella pulizia della casa, ma non conosco neppure per nome le persone della famiglia.
— Mi pareva che foste molto commossa, — replicai.
— Sfido io! — esclamò, quasi offesa — chi non si commuoverebbe al vedere una povera giovane schiacciata sotto un mucchio di stoviglie rotte?
Nella sua ignoranza dava il nome di stoviglie a dei vasi giapponesi che valevano qualche migliaio di franchi l’uno, a un prezioso orologio di Boule, a certe figurine di porcellana di Sassonia che rimontavano a duecento anni almeno!
Il salone ov’era avvenuta la tragedia comunicava con una stanza attigua mediante un ampio arco chiuso da una porta vetrata a due battenti. La morta giaceva a destra di quest’ultima, nell’angolo dirimpetto all’uscio d’entrata.
Appena cominciai ad abituare gli occhi alla penombra, guardai in giro e notai due o tre piccoli particolari che sulle prime erano sfuggiti alla mia attenzione. Innanzi tutto, il corpo era disteso con i piedi rivolti verso la porta che mette nel vestibolo.
Poi, eccezione fatta delle immediate vicinanze del cadavere, non si scorgeva in alcuna parte del locale il più lieve segno di lotta o di confusione. Ogni cosa era a posto, con quella parvenza d’ordine perfetto che regna di solito negli appartamenti della gente per bene.
Data la scarsa luce, non potevo distinguere con precisione, è vero, gli oggetti della vicina stanza, quantunque l’uscio fosse aperto; mi parve però che anche là tutto fosse rimasto al proprio posto.
Mentre facevo tra me e me queste riflessioni, la domestica cercava ad alta voce una spiegazione all’impressionantissimo caso.
— Povera creatura! Se lo sarà fatto cadere addosso da sè, immagino. Ma come ha potuto entrare in casa? E che sarà venuta a fare, così sola, in un palazzo vuoto?
La guardia, alla quale evidentemente erano rivolte queste parole, borbottò fra i denti una risposta incomprensibile, e la donna, nella sua perplessità, mi consultò con lo sguardo.
Ma che potevo dirle?
Qualcosa di indefinibile nel suo contegno mi aveva messa in guardia e mi consigliava a non parteciparle quanto avevo visto la sera innanzi. D’altra parte, non mi piace mentire, perciò rimasi zitta e mi limitai a scrollare il capo con espressione ambigua.
Ella, delusa nell’istintivo bisogno di discorrere, di commentare, si mise di nuovo a contemplare la morta. Ad un tratto, come se fosse colpita da qualche nuovo particolare inatteso, le si avvicinò, gettò un grido soffocato e, inginocchiatasi, cominciò ad esaminare le gonne.
— Cosa fate là? — esclamò il poliziotto con mal garbo. — Alzatevi e lasciatela stare. Il magistrato soltanto ha diritto di toccarla.
— Non faccio nulla di male. Volevo vedere soltanto come quella poveretta è vestita. Un abito turchino, vero? — mi chiese la donna e la voce le tremava in modo strano.
— Sì, di lana turchina. E’ un vestito fatto, si vede chiaro; però di qualità molto fine. Deve provenire dal negozio Gallia, o da Zerri.
— Non sono abituata, io, a vedere di queste cose, — biascicò la domestica, alzandosi in piedi pesantemente; quel rabbuffo da parte del rappresentante della forza pubblica le aveva tolto anche l’ultimo resto di disinvoltura rimastole.
— Sarà meglio che vada a casa, — soggiunse, tuttavia non si mosse.
— E’ molto giovane, vero? — ripigliò in capo a forse un'minuto, con fare esitante.
— Pare di sì, — risposi, — benché poco si possa vedere. Certo dev’essere molto più giovane di voi e di me, perchè le donne di età non portano scarpe così strette e così appuntite: hanno troppo giudizio.
— L’ho indovinato subito, — protestò la donna con grande premura, quasi le premesse giustificarsi. — Per questo, prima ho detto «povera piccina».
Stavo per rispondere, allorché ne fui impedita da un improvviso clamore che si levò nella strada, subito seguito da una energica scampanellata.
— La Giustizia, — annunciò il poliziotto. — Aprite, signora o, se volete che vada io, ritiratevi in quella stanza là in fondo.

Ero troppo ansiosa di trovarmi a faccia a faccia con qualche competente e troppo sentivo l’importanza della testimonianza che sarei chiamata a rendere, per farmi pregare. Senza rispondere, mi slanciai verso la porta.

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