Il Male di Anna
Caterina Grees
Presentazione
Avete mai osservato il
congegno di un orologio? Ebbene il romanzo Il Male può essere paragonato al
congegno di un orologio. La trama è perfetta. L’autrice si diletta a sviare il
lettore seminando qua e là indizi che poi, sapientemente, riesce a sviare su
altri indizi.
Una trama degna di Agata
Christie. Una protagonista, la signora Barzini, che può essere paragonata a
Miss Marple.
Una donna viene trovata
uccisa in un appartamento vuoto. La prima domanda che si pongono gli
investigatori è: chi è la vittima? Infatti ha il volto sfigurato e nessuno si
fa avanti per riconoscerla. La seconda domanda è: chi l’ha uccisa? E qui i
possibili assassini sono più di uno.
In una Milano degli anni
venti si dipana una trama perfetta, ove ogni parola è messa al posto giusto per
far funzionare al meglio una storia avvincente e piena di mistero. E, alla fine
della lettura, se volgiamo il nostro sguardo alla narrazione nel suo complesso
vediamo quanto ordine, quanta armonia, quanta diligenza si trovino in essa.
Incipit
Per natura non sono curiosa, ma allorché in una calda sera di
settembre, mentre stavo per andare a letto, intesi fermarsi una carrozza
davanti alla casa confinante con la mia, confesso che non seppi resistere alla
tentazione di accostarmi alla finestra e di gettare uno sguardo nella strada,
nascondendomi fra le pieghe della tenda per non farmi vedere.
La casa in questione, un bel palazzo signorile situato nel
Parco Sempione, era vuota o almeno così credevo, avendo udito dire che il
proprietario si trovava in viaggio, in Europa, con le sue figliole; pure la
vettura si era fermata proprio davanti ad essa, come avevo supposto.
Il fanale pubblico che illumina, insufficientemente a dir
vero, il nostro tratto di strada è alquanto discosto, sì che riuscii a
distinguere solo approssimativamente i contorni di un uomo e di una donna,
giovani entrambi, a giudicarne dalla snella agilità, e di apparenza civile, che
scendevano a terra.
Osservai che egli salì subito i pochi gradini del peristilio
per aprire la porta con la chiave, mentre lei si fermava un momento a pagare il
cocchiere, e poi seguiva il proprio compagno nell’interno.
Come dissi, era notte, e non potei scorgere in viso nessuno
dei due. Tuttavia, quando lo vidi entrare in casa, ebbi l’impressione che
l’uomo fosse il signor Luigi Bassi, figlio maggiore del proprietario, e la
donna ch’era con lui una congiunta qualunque.
Dieci minuti dopo, intesi aprirsi nuovamente la porta dei
miei vicini. Sorpresa ed incuriosita, tornai alla vetrata, appena in tempo per
vedere il giovanotto di poco prima allontanarsi a gran passi in direzione di
Piazza Castello.
Era solo ed al pensiero che doveva aver lasciata una donna,
forse una ragazza in quella vasta casa vuota, apparentemente senza luce e certo
senza compagnia di sorta, osservai fra me e me che la cosa contrastava forte
col carattere e con l’educazione del signor Luigi.
Un tal modo di trattare meglio si addiceva a suo fratello
Spartaco, un ragazzo senza testa, una specie di figliol prodigo, che due anni
innanzi aveva sposato una giovane dal passato, a quanto si diceva, discutibile,
e da allora era stato messo al bando dalla famiglia. E facendo questa
riflessione naturalissima mi cacciai fra le coltri, mentre l’orologio della mia
camera suonava la mezza dopo mezzanotte.
L’indomani mattina, appena vestita, corsi alla finestra a
dare un’occhiata al palazzo Bassi. Non una tenda era sollevata, non un’imposta
aperta. Ho l’abitudine di alzarmi per tempo. Sul momento, questa constatazione
non destò in me nè inquietudine nè sospetto.
Ma più tardi, dopo colazione, nel constatare che la grande
facciata, tutta impenetrabile e silenziosa, seguitava a non dar segno di vita,
uno strano turbamento cominciò ad insinuarmisi nell’animo.
Nondimeno, fino a mezzogiorno, cioè fino all’ora in cui ebbi
occasione di scendere in giardino, non mi mossi e non feci nulla. Fu allora
che, osservando le finestre posteriori di casa Bassi e constatando come fossero
esse pure ermeticamente chiuse al pari di quelle anteriori, ebbi un violento
tuffo al cuore e, fermata da prima guardia di polizia che mi passò a tiro, la
pregai di suonare a quella porta.
Essa aderì, ma non ottenne risposta.
— Non c’è nessuno, — disse.
— Suonate un’altra volta, — insistei.
La guardia ricominciò, con identico risultato negativo.
— Lo vedete bene che la casa è vuota, — brontolò. — Del
resto, lo sapevo, perchè abbiamo ricevuto ordine di sorvegliarla durante
l’assenza dei padroni, e nessuno ci ha detto ancora di smettere.
— V’è dentro una donna, — protestai — ne sono certa ed ho la
convinzione che questa notte sia successo qualcosa di molto grave.
Egli si strinse nelle spalle e stava per rimettersi in via;
senonché, proprio in quella, ci accorgemmo tutti e due che una donna del popolo
s’era fermata davanti alla casa in questione. Portava un involto sotto il
braccio, ed il suo viso, eccezionalmente acceso e coi lineamenti sconvolti,
spauriti, rispecchiava una emozione intensa: fatto tanto più notevole in quanto
che, nelle circostanze ordinarie della vita, esso doveva essere, se non
m’ingannavo, perfettamente inespressivo e insignificante. Del resto quella donna
non mi era del tutto ignota; più volte anzi l’avevo vista entrare dai Bassi od
uscirne.
Incapace di dominare l’agitazione che mi aveva presa, avanzai
fino a lei e la interpellai senza cerimonie.
— Chi siete? Lavorate forse per la famiglia Bassi? E conoscete
la signora che entrò qui questa notte?
Ella fece un gesto sbigottito, forse per la sorpresa di
sentirsi rivolgere la parola d’improvviso, forse perchè la mia voce aveva
involontariamente assunto un’espressione un poco brusca.
Indietreggiò con grande premura e credo che, senza la
presenza del poliziotto, avrebbe tentato di darsi alla fuga. Invece rimase; ma
il vivo rossore, che dava alla sua faccia un aspetto così fuor del comune,
divenne anche più intenso. Aveva le guance e la fronte scarlatte addirittura.
— Sono la donna di servizio, — dichiarò. — Vengo ad aprire le
finestre e a dar aria agli appartamenti.
Osservai che non aveva risposto alla mia seconda domanda e
stavo per ripeterla, allorché intervenne la guardia.
— Allora la famiglia sta per ritornare?
— Non so, però lo suppongo, — disse la donna, ma il tono
della sua voce mancava di convinzione.
— Avete le chiavi? — ripigliai, vedendola mettere la mano in
tasca.
Essa non rispose e mi voltò la schiena, ma non prima che
avessi colto a volo una espressione d’astuzia mista a dispetto, sostituitasi a
quella di inquietudine estrema che l’aveva tenuta fino allora.
— Non capisco proprio perchè questo debba importare ai
vicini, — borbottò girando un momento la testa per gettarmi un’occhiata
cattiva.
— Gli è che, se avete le chiavi, — spiegò il poliziotto, —
entreremo con voi, per vedere se tutto sia in ordine.
A queste parole la domestica avventizia fu presa da un
tremito, ed io sentii raddoppiare la mia oscura emozione. Se qualcosa di
anormale fosse realmente accaduto nel palazzo Bassi, ci tenevo assai ad
assistere alla scoperta che io stessa avevo provocata. Ma le prime parole della
donna caddero come una doccia fredda sulle mie speranze.
— Entrate pure; non mi fa nulla, — ella disse infatti al
rappresentante dell’autorità, — ma non voglio consegnare le chiavi a quella là.
Con quale diritto entrerebbe in casa nostra, se la domanda è lecita?
— Essa ha ragione, — dichiarò nel più burocratico dei toni il
poliziotto.
E, passandomi davanti senza cerimonie, scese la breve
gradinata laterale che conduceva alla porta del sottosuolo, vi entrò, seguito
dalla donna, e si chiuse il battente alle spalle lasciandomi con un palmo di
naso.
Rimasi là fuori, ferma, ad aspettare. Sentivo di averne quasi
il dovere. Più di un passante s’arrestò un momento a guardarmi, tanto il mio
atteggiamento, nella strada, senza cappello, con l’occhio inchiodato sulla
facciata e tutta la persona fremente, appariva strano; ma io non me ne curai e
rimasi imperterrita al mio posto.
Non avrei potuto a nessun patto rientrare in casa mia ad
accudire alle mie faccenduole quotidiane se prima non mi fossi assicurata de visu che la giovane donna entrata per
quella porta a mezzanotte, sotto i miei occhi, fosse viva e sana e che il suo
ritardo nell’aprire le finestre dipendesse unicamente dalla pigrizia abituale
nelle signore dell’alta società.
Alcuni passanti s’erano già fermati ad osservare, allorché la
porta di servizio s’aprì con violenza e scorgemmo il viso spaventato della
domestica che tremava dalla testa ai piedi, come una foglia.
— E’ morta! — gridò. — E’ morta! Aiuto! Agli assassini!
Avrebbe aggiunto dell’altro se il poliziotto non l’avesse
presa per un braccio e trascinata nell’interno con un brontolio che somigliava
forte ad una bestemmia repressa.
Anche questa volta egli fece per chiudermi la porta in
faccia, ma io, più lesta di lui, avevo già preso lo slancio. Mi trovai
nell’interno prima che avesse potuto impedirmelo, e seguii senza parlare i due.
Fu fortuna, perchè la donna, la quale impallidiva a vista
d’occhio, cadde ad un tratto a terra come una massa inerte mentre arrivavamo
nel vestibolo. Il poliziotto non era certo un individuo di risorse, di quelli
che possano rendersi utili nelle contingenze difficili. Confuso, imbarazzato,
non sapeva evidentemente da qual parte voltarsi e fu ben contento di poter
lasciare a me l’iniziativa dei necessari soccorsi.
La povera creatura era svenuta, e, per prima cosa, la presi
per le spalle e cominciai a trascinarla del mio meglio lontana dalla soglia,
verso una panca del fondo, nell’intenzione di farvela sedere.
Ma, nonostante il mio vivo desiderio di assisterla, quando
arrivai all’altezza del vicino salottino, vidi uno spettacolo così tragico,
così terrificante che abbandonai senza volerlo il mio fardello umano.
Nella mezza oscurità, perchè la stanza in questione era
unicamente rischiarata dall’uscio entro il quale si insinuava il mio sguardo,
giaceva un corpo di donna in parte nascosta sotto un mobile rovesciato.
Non si distinguevano bene che la gonna e le braccia,
allargate in guisa da formare una croce, ma all’aspetto rigido delle membra non
era difficile indovinare che la disgraziata era morta.
Mi sentii mancare il cuore e fui ad un filo dal perdere io
pure i sensi. Tuttavia il pensiero che l’opera mia si rendeva necessaria in
quel momento, mi aiutò ad irrigidirmi contro l’atroce emozione. Con uno sforzo
scossi la debolezza che mi aveva presa, e, voltandomi verso il poliziotto,
esitante fra la donna di servizio e il cadavere, esclamai con vivacità:
— Via, amico mio, movetevi. Quella infelice là è morta, ma
questa che vedete è viva, e bisogna farla rinvenire al più presto. Scendete in
cucina a prendere una brocca d’acqua, se potete. Poi andate in cerca di una
bottiglia di aceto o di essenza. Io resto qui accanto a lei per aiutarla. E’
robusta e spero che se la caverà in breve.
Il volto del poliziotto assunse un’espressione sospettosa.
— L’acqua andate a prenderla voi, che sarà meglio, —
protestò. — E, poiché ci siete, aprite una finestra e gridate alla gente che
chiami un impiegato di polizia e il giudice istruttore. Io non mi muovo certo
da questa stanza finché non arrivi uno dei due.
Tanta prudenza mi parve esagerata, ma non era il caso di
muovere obbiezioni, ed io mi disposi ad eseguire senz’altro la raccomandazione,
compresa della convenienza di provvedere con la maggiore possibile
sollecitudine.
— Salite al secondo piano, — egli mi gridò dietro mentre mi
allontanavo, — e dite quanto occorre in poche parole. Se aprissimo la porta,
quanti sono lì fuori farebbero ressa per entrare.
Salii i gradini a quattro a quattro, aprii una vetrata e
constatai che la folla si era ingrossata al punto da invadere, oltre al
marciapiede, più che la metà dello spazio destinato ai veicoli.
— Un ispettore di polizia! — urlai con quanto fiato avevo in
corpo. — Fate chiamare un ispettore! E’ successo un accidente gravissimo, e la
guardia che è già in casa domanda che si facciano venire subito il giudice
istruttore e un impiegato della sicurezza pubblica.
Compiuto così il mio dovere verso le autorità costituite, mi
ritirai dalla finestra e mi guardai intorno, in cerca di acqua.
Mi trovavo nella camera da letto di una donna, probabilmente
della maggiore delle ragazze Bassi: un locale disabitato da parecchi mesi, dove
era naturale mancasse tutto ciò che può servire in una circostanza simile.
Non infatti una bottiglietta d’acqua di colonia sul tavolino
da toletta, non i soliti sali sul caminetto. Per fortuna, la conduttura
dell’acqua funzionava regolarmente, avevo appena osato sperarlo, e trovai un
piccolo bicchiere sui lavabo.
Lo riempii in fretta e mossi verso l’uscio. Nel traversare la
stanza urtai col piede contro un piccolo oggetto che riconobbi per un
guancialetto da spilli, di forma rotonda. Lo raccolsi istintivamente per
quell’amore innato, quasi eccessivo, dell’ordine che non mi abbandona mai,
neppure nei momenti più critici, lo deposi su un tavolo che trovai a portata di
mano, ed uscii.
La domestica giaceva, sempre svenuta, in mezzo al vestibolo.
Le spruzzai l’acqua in viso ed ebbi la soddisfazione di vederla ritornare
subito in sé.
Provveduto così al più urgente, mi alzai e gettai l’occhio
nel salotto. La guardia non s’era mossa dal posto dove l’avevo lasciata. In
piedi accanto al cadavere, lo fissava come se temesse di vederselo scappare
via.
Il carattere misterioso di questa terribile faccenda
esercitava, mio malgrado, una specie di fascino sull’animo mio. Lasciai la
donna, che ormai s’era completamente rimessa, e mi avvicinai al salotto, quando
essa mi trattenne con uno strillo:
— No, no! non mi lasciate, per carità! Non ho mai visto
niente di più spaventoso! Povera piccina! povera piccina! Perchè non le levano
tutte quelle cose che ha addosso?
Essa parlava non soltanto del mobile che era caduto sopra la
donna e che aveva la forma di un grande stipo, a compartimenti nella parte
inferiore ed a scaffali in quella superiore, ma anche dei vari oggetti che ne
erano usciti e giacevano a terra in frantumi, sparsi attorno al cadavere.
— Le leveranno, le leveranno, non dubitate, e presto, —
risposi.
— Ma se per caso non fosse ancora morta? Tutto quel peso
finirebbe per soffocarla. Volete che la liberiamo insieme? Sono pronta ad
aiutarvi. Adesso non ho più nulla, le forze mi sono tornate e mi sento in grado
di darvi una mano.
— Sapete chi sia? — le chiesi.
— Io?! — ella esclamò sbattendo forte le palpebre e cercando
a fatica di sostenere il mio sguardo. — O come volete che lo sappia? Sono
entrata con la guardia, e non mi sono mai avvicinata a quella poveretta più di
adesso. Cosa mai può farvi supporre che la conosca? Faccio la domestica
avventizia, e mi chiamano qui a quando a quando per aiutare la servitù nella
pulizia della casa, ma non conosco neppure per nome le persone della famiglia.
— Mi pareva che foste molto commossa, — replicai.
— Sfido io! — esclamò, quasi offesa — chi non si
commuoverebbe al vedere una povera giovane schiacciata sotto un mucchio di
stoviglie rotte?
Nella sua ignoranza dava il nome di stoviglie a dei vasi
giapponesi che valevano qualche migliaio di franchi l’uno, a un prezioso
orologio di Boule, a certe figurine di porcellana di Sassonia che rimontavano a
duecento anni almeno!
Il salone ov’era avvenuta la tragedia comunicava con una
stanza attigua mediante un ampio arco chiuso da una porta vetrata a due
battenti. La morta giaceva a destra di quest’ultima, nell’angolo dirimpetto
all’uscio d’entrata.
Appena cominciai ad abituare gli occhi alla penombra, guardai
in giro e notai due o tre piccoli particolari che sulle prime erano sfuggiti
alla mia attenzione. Innanzi tutto, il corpo era disteso con i piedi rivolti
verso la porta che mette nel vestibolo.
Poi, eccezione fatta delle immediate vicinanze del cadavere,
non si scorgeva in alcuna parte del locale il più lieve segno di lotta o di
confusione. Ogni cosa era a posto, con quella parvenza d’ordine perfetto che
regna di solito negli appartamenti della gente per bene.
Data la scarsa luce, non potevo distinguere con precisione, è
vero, gli oggetti della vicina stanza, quantunque l’uscio fosse aperto; mi
parve però che anche là tutto fosse rimasto al proprio posto.
Mentre facevo tra me e me queste riflessioni, la domestica
cercava ad alta voce una spiegazione all’impressionantissimo caso.
— Povera creatura! Se lo sarà fatto cadere addosso da sè,
immagino. Ma come ha potuto entrare in casa? E che sarà venuta a fare, così
sola, in un palazzo vuoto?
La guardia, alla quale evidentemente erano rivolte queste
parole, borbottò fra i denti una risposta incomprensibile, e la donna, nella
sua perplessità, mi consultò con lo sguardo.
Ma che potevo dirle?
Qualcosa di indefinibile nel suo contegno mi aveva messa in
guardia e mi consigliava a non parteciparle quanto avevo visto la sera innanzi.
D’altra parte, non mi piace mentire, perciò rimasi zitta e mi limitai a
scrollare il capo con espressione ambigua.
Ella, delusa nell’istintivo bisogno di discorrere, di
commentare, si mise di nuovo a contemplare la morta. Ad un tratto, come se
fosse colpita da qualche nuovo particolare inatteso, le si avvicinò, gettò un
grido soffocato e, inginocchiatasi, cominciò ad esaminare le gonne.
— Cosa fate là? — esclamò il poliziotto con mal garbo. —
Alzatevi e lasciatela stare. Il magistrato soltanto ha diritto di toccarla.
— Non faccio nulla di male. Volevo vedere soltanto come
quella poveretta è vestita. Un abito turchino, vero? — mi chiese la donna e la
voce le tremava in modo strano.
— Sì, di lana turchina. E’ un vestito fatto, si vede chiaro;
però di qualità molto fine. Deve provenire dal negozio Gallia, o da Zerri.
— Non sono abituata, io, a vedere di queste cose, — biascicò
la domestica, alzandosi in piedi pesantemente; quel rabbuffo da parte del
rappresentante della forza pubblica le aveva tolto anche l’ultimo resto di
disinvoltura rimastole.
— Sarà meglio che vada a casa, — soggiunse, tuttavia non si
mosse.
— E’ molto giovane, vero? — ripigliò in capo a forse
un'minuto, con fare esitante.
— Pare di sì, — risposi, — benché poco si possa vedere. Certo
dev’essere molto più giovane di voi e di me, perchè le donne di età non portano
scarpe così strette e così appuntite: hanno troppo giudizio.
— L’ho indovinato subito, — protestò la donna con grande
premura, quasi le premesse giustificarsi. — Per questo, prima ho detto «povera
piccina».
Stavo per rispondere, allorché ne fui impedita da un
improvviso clamore che si levò nella strada, subito seguito da una energica
scampanellata.
— La Giustizia, — annunciò il poliziotto. — Aprite, signora
o, se volete che vada io, ritiratevi in quella stanza là in fondo.
Ero troppo ansiosa di trovarmi a faccia a faccia con qualche
competente e troppo sentivo l’importanza della testimonianza che sarei chiamata
a rendere, per farmi pregare. Senza rispondere, mi slanciai verso la porta.
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