Il Monaco Nero di
Gabriela Suarez
Presentazione
Degli sconosciuti
profano il Santo Sepolcro. Dieci anni dopo, nella cittadina ungherese di Esztergom, vengono commessi
tre brutali omicidi. Chi è l’omicida? Forse il Monaco Nero che si aggira nella
villa dei Déry?
Erzsébet
Zilahy, una giovane bibliotecaria, si trova suo malgrado invischiata in una
storia complicata, combattuta tra l’amore e la passione per Ferenc Kristóf,
dirigente della locale biblioteca e l’affetto che ha per il suo fidanzato,
Lajos Déry, membro di una delle famiglie più antiche di quella piccola
cittadina dell’Ungheria Settentrionale, situata sulla riva destra del Danubio,
nella provincia di Komárom-Esztergom e famosa perché, nell’antichità, Marco
Aurelio aveva posto lì i suoi alloggiamenti, durante il suo secondo soggiorno
in Pannonia, nel corso della seconda expeditio
germanica del 178-179 d.C.
Incipit
Quando giunsero davanti all’antichissima chiesa in cui era
il sepolcro del redentore, una piccola nube di uccelli, tutta vibrante di
squittii, svolazzava intorno alla sua facciata.
Era un continuo frusciare di ali su per le due ampie finestre a sesto
acuto e su per l’arco ogivale della larga porta.
A chi pregava, a chi contemplava, a chi pensava, fra i
poderosi pilastri che sostenevano la volta del tempio, fra le cappelle che brillavano
della luce delle lampade votive, quel canto di uccelli giungeva velato, ma
persistente e si mescolava, in quell’ora dei sacri riti, agli inni mistici che
i latini, che i greci, che gli armeni, che i copti elevavano, senza fine, alla
memoria del loro Dio. E, a quel sottile canto di uccelli, si univa alla grave e
toccante voce dell’organo, su cui i padri francescani cantavano le laudi della
tenera madre di Gesù.
Gli uomini che erano entrati nella chiesa non fecero molto
caso a tutti quei particolari dal sentore mistico e si diressero con decisione
verso il punto che era stato loro indicato. L’edicola del Santo Sepolcro era
completamente isolata dal resto della chiesa. Era stata costruita sulla roccia
viva che formava le tombe di Giuseppe d’Arimatea, in cui fu seppellito Gesù: il
sepolcro era stato rivestito di nobili marmi da colei, a cui più dovevano i
cristiani di tutti i tempi e di tutti i paesi, da quella grande Elena, madre di
Costantino imperatore, che aveva meritato il nome di Helena Magna.
L’edicola santa misurava otto metri e venticinque centimetri
di lunghezza, sopra cinque metri e cinquantacinque centimetri di larghezza,
mentre la sua altezza totale era di cinque metri e cinquanta centimetri. Si
eleva quaranta centimetri sovra il suolo del tempio, ascendendovisi per quattro
scalini. Essa formava, dunque, una cappella allungata, volta da occidente a
oriente: verso occidente, essa era quadrata, verso oriente, era pentagonale.
L’interno di questa cappella era fatto di due camerette o cellette, quasi
quadrate, attaccate l’una all’altra, comunicanti fra loro per mezzo di una
apertura bassa e stretta, da dove si poteva passare piegati in due.
Uno degli uomini domandò:
— Allora ci siamo?
Quello
che sembrava essere il capo rispose:
— Non ancora.
Passarono
nella prima celletta, detta dell’Angelo. Nel centro, collocato sopra un
piedistallo e chiuso in una cornice di marmo, consumato dai baci, vi era un
pezzo della pietra tombale che Maddalena e le pie donne che avevano assistito
Gesù avevano trovato riversa: era una pietra molto grande e pesante. Quella
celletta che era il vestibolo della Santa Tomba, era oscura, in una penombra
appena rischiarata da quindici lampade di argento, pendenti dalla volta, e,
come sempre, appartenenti alle quattro religioni cristiane.
Il Santo Sepolcro era nella seconda celletta. La porta che
v’immetteva, non era che un’apertura ad arco, molto bassa, di un metro e
trentadue centimetri di altezza, sopra sessantasei di larghezza: una sola
persona, alla volta, vi poteva passare, ma curvatissima. La apertura ad arco
era tagliata nella massiccia roccia viva.
— Ecco ci siamo.
Il Santo Sepolcro non era molto elevato dal suolo.
Generalmente accanto ad esso, vi era sempre un sacerdote vegliante la tomba del
Redentore, ma quel giorno inspiegabilmente non si era presentato a compiere il
suo uffizio.
La stanzetta era abbastanza illuminata, giacché, negli
ultimi tempi, i greci avevano perforata la volta dell’edicola: ma essa era
comunque molto affumicata dalle quarantatré lampade, che, perennemente, vi
ardevano.
Il capo di coloro che erano penetrati nel sepolcro guardò la
roccia, di cui era fatta la tomba: era biancastra, venata di rosso. Gli avevano
detto che in arabo si chiamava melezi,
cioè pietra santa. Il sarcofago era ricoperto di marmi, sino da oltre il
tredicesimo secolo, come pure le pareti erano state ricoperte molto più tardi.
La tomba del Signore non era stata aperta che due volte. Il
reverendissimo padre Mauro, custode dei Luoghi Santi, autorizzato dal papa
Giulio secondo e da Kansou-el Gauro, sultano d’Egitto, nel 1501, ebbe la
fortuna di poter aprire quella sacra custodia. Egli vi notò, fra altri oggetti,
una tavoletta in marmo che tolse: non toccò gli altri oggetti e fece
rinchiudere il monumento. Quattro anni dopo, padre Bonifacio, Custode dei
Luoghi Santi, fece sollevare la lapide di marmo e vi trovò un pezzetto della
vera croce, avvolto in un panno, ma, al contatto dell’aria e della luce, tutto
cadde in polvere, salvo qualche filo di oro che vi era nel tessuto. Rinvenne
anche una pergamena, con una iscrizione, ma così cancellata dal tempo, che vi
si potettero leggere solo le parole: Helena
Magna. Poi, nel giorno 27 agosto 1555, a mezzogiorno, la Tomba era stata
rinchiusa e non era stata mai più riaperta.
Colui che comandava ordinò:
— Su, diamoci da fare!
L’orlo della tomba era consunto dalle labbra e dalle lagrime
dei pellegrini di tutti tempi e di tutto il mondo, ma il marmo resisteva
ancora. Incuranti dei danni che potevano provocare, con un grimaldello fu
spostata la lapide.
— Ma qui non c’è niente, — disse uno degli
uomini.
— Bisogna scavare.
Due
ore dopo gli uomini così come erano entrati, uscirono. Sui loro volti era
possibile notare una profonda soddisfazione. Evidentemente avevano trovato ciò
che cercavano.
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