L'Ombra della
Follia di Guglielmo Lanyon Dave
Presentazione
Una storia d’amore e di mistero. Nel 1948, Christoph Brussig, che
undici anni prima si era esiliato volontariamente in Argentina, per non vivere
sotto il regime nazista, rientra in patria. Mentre è in cerca di lavoro si imbatte
con la segretaria del dottor Wenzel che lo assume come autista.
Da
questo momento la sua vita cambia radicalmente. Giunto alla villa del dottor
Wenzel egli si accorge ben presto che quelle mura racchiudono un terribile
segreto. Ma quale? Chi è la donna, pallida ed emaciata, che ha visto ad una
finestra? Chi ha emesso un grido nella notte? Perché ogni tanto il giardiniere
della villa brucia della Male Erbe, anziché lasciarle a concimare il terreno? E
chi è Quasimodo, un essere deforme che somiglia ad una scimmia?
Poi,
alla villa giunge una ragazza. La signorina Gwendolin Sauerwein ed allora si fa
pressante per il giovane scoprire la verità di tutto quello che lo circonda.
Alle
fine del romanzo un racconto di Adelaide Byrne in regalo: Sheila Holmes e il Volo
della Morte.
Incipit
Al
suo sbarcare a Hamburg, nel 1949, Christoph Brussig possedeva 100 marchi e
undici pfennig e non aveva alcuna prospettiva davanti a sé. Era venuto da San
Carlos de Bariloche, una città dell'Argentina situata nella provincia del Río
Negro, nella Patagonia nord-occidentale, ai piedi delle Ande, sulle sponde del
lago Nahuel Huapi.
Si
era recato colà nel 1938, dopo aver compreso appieno la follia del Terzo Reich,
e vi aveva trascorso ben undici anni di esilio volontario, quando, preso dalla
nostalgia della sua terra, si era imbarcato nella stiva di un grande
transatlantico.
Ritornava
in patria senza sapere egli stesso il perché, tolto che si sentiva un pò stanco
di quella vita errabonda, tra nostalgici del nazismo che, nel frattempo, avevano
invaso l’Argentina, e il pensiero che, probabilmente, in Germania avrebbe avuto
una sorte migliore di quella che aveva incontrato in Sud-America. E, in ultimo,
forse, il natio loco gli aveva insensibilmente toccato le corde del cuore.
Se
si fosse reso conto della presenza di questo sentimento avrebbe forse riso di
una sentimentalità a lui ignota, perché grande era l’abisso che lo separava da
essa e per non avere egli mai provato emozioni d’amore o sdolcinate tenerezze.
Da
una feritoia del bastimento aveva osservato lo sbarco dei passeggeri di prima
classe, ricchi americani e canadesi, che i rapidi espressi avrebbero condotti a
Berlino nei sontuosi alberghi delle Forze Alleate. I passeggeri di seconda e
terza classe, al contrario, si sarebbero diretti verso Bremen, Hannover e
Düsseldorf, la maggior parte per lavorare nella risorgente industria tedesca.
Ad accoglierli vi erano i parenti, gli amici, le mogli o le fidanzate. Ma per
lui, non una voce di benvenuto, non una stretta di mano, nè una mensa preparata
per il suo arrivo.
Era
penoso questo suo ritorno in Germania dopo tanti anni di inutile vagabondaggio
in un paese che, per quanto ospitale, gli era sempre rimasto indifferente.
Appena trentenne non sapeva convincersi egli stesso dell’età sua, tanto si
sentiva invecchiato.
Undici
anni prima era partito pieno di speranze, pensando che il mondo sarebbe stato
meglio di quella sua patria che vedeva andare incontro alla più totale rovina,
ma erano stati undici anni sciupati!
Ripensava
come erano trascorsi. In Germania era stato operatore per il regista Friedrich
Christian Anton Lang che, come lui, nel 1933, era stato costretto a trasferirsi
in Francia, avendo, infatti, egli rifiutato l’incarico di alto dirigente
nell'industria cinematografica nazista, carica offertagli da Goebbels in
persona.
Come
lo stesso regista gli aveva confessato, l’ultima volta che si erano visti, il
regime aveva sempre violentemente avversato una delle sue pellicole più
celebri, M - Il mostro di Düsseldorf,
ed aveva impedito la distribuzione di Il
testamento del dottor Mabuse. Lang inizialmente aveva accettata l'offerta,
ma la sera stessa, sospettando una trappola, era fuggito dalla Germania.
Una
volta in Argentina, Christoph Brussig, aveva lavorato la terra, aveva fatto il
minatore, era stato occupato in una fabbrica di automobili, poi era stato
conducente d’automobile presso il sindaco di Bariloche, quindi commesso in un
negozio di calzature, con non piccolo sacrificio, e infine sguattero sui treni,
cosa questa che gli era piaciuta ancora meno.
Ed
era ritornato alle sue terre senza che il mondo si fosse schiuso davanti a lui,
senza aver potuto penetrarvi. Per colpa sua? O era quello il suo destino?
Camminando
lungo il molo, fece un più accurato esame della sua cassa: cento marchi... Non
erano molti per affrontare il mondo con le sue incognite. Pur tuttavia si
sentiva relativamente soddisfatto, constatando che il suo gruzzolo sorpassava
di molto la cifra che aveva disponibile alla partenza. Senza dubbio egli si
sarebbe messo a posto a Berlino, speranza giustificata per chi non sapeva di
quanti spostati Berlino rigurgitava.
Contava
di passare quella notte a Hamburg per prendere uno dei primi treni il mattino
seguente. Non aveva la più vaga idea di quello che avrebbe potuto fare nella grande
metropoli. Qualche occupazione gli sarebbe pur capitata sotto mano: una ruota
da pulire, piatti da rigovernare.
Non
sarebbe poi stata la prima volta che si dedicava a simili lodevoli mestieri.
Del resto vi erano sempre piroscafi pronti per la partenza da Hamburg, ed egli
conosceva bene il lavoro che offre la stiva: nessuna preoccupazione, perciò.
Aveva
una sorella sposata a un rispettabile impiegato di Banca in qualche località
vicino Frankfurt am Main. Ma sapeva anche che i rispettabili cognati occupati
in Banca non avevano soverchia simpatia per le persone irrequiete. Meglio
quindi evitare Frankfurt am Main.
Vagò
così per Hamburg in cerca di qualche asilo che facesse per lui.
L’esperienza
gli aveva insegnato molte cose, e se non aveva saputo profittarne la colpa era
tutta sua. Come avviene per tanti al mondo, anch’egli aveva trascurato le
occasioni, e ciò, senza dubbio, per un certo senso di scrupolosità: così,
almeno, si lusingava di convincere se stesso.
Per
questo forse non aveva ceduto alle amabili offerte della figlia del sindaco di
Bariloche, una ragazza tutta pepe, molto democratica, ma con l’idea fissa del
matrimonio in testa.
La
cosa era rimasta lì. Non sapeva, nè aveva voluto mai sapere se doveva
rimpiangere o meno le buone occasioni trascurate. E continuava a ripetersi
ch’egli era un buono a nulla, un mancato della vita. Naturalmente non ne era
punto convinto, mentre un innato suo umorismo gli permetteva di ridere di se
stesso: una grande fortuna per lui.
Mentre
così ragionava incontrò per caso un signore che, nel chiedergli una
informazione, lo informò che si doveva recare alla periferia di Postdam una
ventina di chilometri da Berlino. Per risparmiare i soldi del treno si fece
dare un passaggio.
Si
era in estate e, quando intraprese il suo viaggio, il sole splendeva. Si è
ingiusti verso la Germania, asserendo che colà piove di continuo: faceva un
tempo splendido.
Proseguiva
veloce con la pipa fra i denti. Dopo tutto il paese piaceva molto anche a lui:
per gli eletti della sorte doveva esser singolarmente splendido. Si era
aspettato rovine e macerie, ma, nei piccoli villaggi, la vita era rinata
velocemente. Tutto si presentava regolare, bene allineato, sembrava il luogo
adatto per chi vuol sognare una vita facile e comoda.
Proseguì
il suo cammino e arrivò a Postdam sul calar del giorno, prendendo stanza in un
pubblico alloggio ove lo ritennero un sud-sud-americano a motivo del suo
accento. Egli li lasciò in tale convinzione, poco importandogli questa come
tante altre cose. Del resto di tedeschi ve n’erano molti: uno più uno meno,
poco contava.
La
prima fase del suo viaggio si era dunque svolta senza intoppi. La seconda però
doveva dimostrarsi ben più movimentata. Brussig non si occupava di controllare
tempo e distanze, poco importandogli dell’uno e delle altre. Pensò che venti
chilometri da Berlino non erano troppi e, un giorno o l’altro, sarebbe pur
entrato nei sobborghi distrutti dalla guerra. L’importante non era capitare
nella zona controllata dai russi.
Si
sedette su una panca per riempire la pipa e forse per filosofare un pò
seriamente, perchè noi siamo tutti portati a fare della filosofia. Il suo
passato gliene dava, del resto, non poco argomento. Ma proprio in quel punto
avvenne un fatto che lo trasse dalle sue meditazioni.
A
forse cento metri dal luogo ove egli si era fermato, la strada faceva una curva
repentina. Un’automobile apparve improvvisamente a quella svolta, a una
velocità veramente eccessiva. Prima che il nostro viandante potesse rendersene
conto, l’automobile andò a cozzare contro una siepe ove rimase ferma.
Brussig
balzò in piedi e si precipitò sul posto, pensando che lo chauffeur doveva esser
pazzo per fare una curva a tale velocità. Essendo egli, in auto, prudente per
natura, sentiva un grande disprezzo per coloro che facevano gli sbruffoni.
Evidentemente
uno di questi era l’individuo che una donna, balzata dalla vettura, apostrofava
con accenti di rabbia, il conducente, che se ne stava imperturbato sul suo
sedile e lisciava con una mano il copertone di una ruota anteriore.
— Togliete la macchina di là, — strillava
la donna. — Che state a pensare seduto a
fare smorfie come un idiota?
— No, non mi muovo, — borbottò l’uomo che
sembrava prendere piacere alla situazione.
Divertito
dalla scena, Brussig trovava che la donna era assai desiderabile. Sotto il
leggero abito estivo, il suo corpo era snello e aggraziato. Le si potevano dare
non più di una trentina di anni, anche se forse ne aveva di più.
Tutta
la sua attenzione si concentrò su di lei. Non vedeva nient’altro. Ogni cosa in
lei lo affascinava. La lucentezza dei capelli, il colore degli occhi, la forma
del viso! Il morbido candore delle sue braccia nude, i polsi sottili, le dita
affusolate, esprimevano una grazia e una signorilità fuori dal comune. Il suo
profumo, poi, era eccitante e pudico al tempo stesso!
Il
desiderio, in lui, evocò visioni senza veli della avvenenza celata sotto quegli
abiti che tanto le donavano. Aveva esili seni soffici, che gli fecero pensare
che si sarebbero adattati benissimo alla sua mano, come le anche strette, il
ventre piatto, le natiche tese e turgide, la pelle delle cosce liscia e pallida
come alabastro! E, fra esse, sotto la delicata seta delle mutandine ……..
La
donna sembrò accorgersi del suo sguardo e sembrò leggergli nel pensiero.
D’altronde ogni gesto, ogni sguardo di lui rivelava i suoi pensieri, più
chiaramente che con parole. In altri momenti ne sarebbe stata divertita e
lusingata, ma in quel momento aveva ben altro a cui pensare.
Ella
girò attorno lo sguardo: i suoi occhi schizzavano fuoco.
— Colui è pazzo, — disse. — E’ ubriaco!
Ed
era quasi evidente. L’uomo continuava a ghignare in modo amabile, stupido. Il
cofano della vettura stava inclinato di tre o quattro piedi sopra la siepe, il
che permetteva allo chauffeur di starsene elegantemente adagiato.
Egli
appariva perfettamente felice nella sua pace. Brussig ammirava
quell’atteggiamento di incosciente filosofica noncuranza. Un uomo che va ad
appollaiare la sua macchina in cima a una siepe e si pone a dormire
pacificamente su di essa è certamente qualche cosa di straordinario.
— Si direbbe che vi si è accomodato per
passarvi la sua giornata.
— E’ proprio così, — ghignò lo chauffeur.
— Qualche volta ci adagiamo, qualche
volta balziamo in piedi.
Quest’ultima
frase aveva un significato che Brussig non riuscì a capire. Ma fu colpito
dall’insolenza dello chauffeur e della isterica nervosità della donna che
continuava a imprecare, ma senza efficacia di sorta. Poi ella si volse,
implorante, quasi piangente, al nuovo venuto.
— Vede in quale stato è? Che debbo fare?
Ella
sapeva di aver fatto una conquista, e in modo civettuolo gli chiedeva
aiuto. Brussig le sorrise, non un
sorriso di semplice cortesia, bensì allusivo a molto di più per farle capire
che era interessato a lei, che sapeva ch’ella avrebbe potuto interessarsi a
lui, ch’egli avrebbe gradito codesto interesse in ogni fibra del suo essere e
disse, banalmente:
— Credo che dobbiamo sbarazzarci di lui, —
egli disse. — Me lo permette?
— Vuol dire che lei...
— Leverò di là quell’incomodo, se lei approverà
il provvedimento.
— Gettandolo poi nel fosso, — ella replicò
senza esitazione.
Brussig
si appressò all’uomo e disse:
— Avete inteso?
— Ho capito benissimo.
— Allora uscite di là.
Visto
che il comando non era eseguito con prontezza, Brussig balzò sulla vettura,
afferrò per il collo il recalcitrante e lo scagliò senza cerimonie sulla via.
Accasciato sul terreno, lo chauffeur cominciò a bestemmiare, ma il suo
antagonista, curvo su di lui, impose:
— Silenzio, niente bestemmie!
L’ammonizione
non fece che infervorare l’individuo che, saltato in piedi, con l’occhio di
fiamma, assunse una posa da lottatore, coi pugni serrati. Poi si gettò a terra
nuovamente, di botto, e cominciò a grattarsi un orecchio.
— Ecco quello che gli spetta, — disse la
donna con un sorriso al suo protettore.
— E quello che spetta a lei è la prigione,
— ribattè lo chauffeur, — a lei e a tutti
gli altri.
— Voi siete licenziato, — ella disse, — Andatevene e non fatemi più vedere la vostra
faccia.
— Forse la rivedrà più di quanto non vorrebbe.
— Lo prenda a calci, — disse la donna,
rivolta a Brussig, sempre pronto all’azione quando si presentava motivo di
spiegare la propria forza. Ma egli era ben lungi dal sentirsi adirato.
L’incidente aveva destato in lui uno strano interesse. Guardò l’uomo e sorrise.
Fosse questo sorriso o la vicinanza di scarpe ben suolate, sta il fatto che
egli sorse in piedi continuando a grattarsi dietro l’orecchio.
— Siete ubriaco, — disse Brussig.
— Davvero?
— Sì! — strillò la donna.
— Ne dubitate ancora?
— Avrò a che fare con voi due nei prossimi
giorni, con voi e con gli altri. Sa benissimo, costei, quello che intendo dire,
e ve ne sono molti, oltre a me, che sanno e hanno visto. Ora andatevene al covo
come meglio potete, spero che vi romperete il collo.
Ciò
detto si allontanò con passo non del tutto sicuro. Brussig e la signora lo
seguirono con lo sguardo, senza dire una parola, ma Brussig osservò che dal
viso della donna era scomparso il rossore dell’ira per dar luogo a
un’espressione di durezza che traspariva da tutto il suo contegno.
Non
essendo al corrente del significato che potevano avere le parole beffarde dello
chauffeur, se un significato avevano, non vi fece gran caso, quantunque la
parola, covo gli fosse suonata non
troppo piacevolmente. Nessun servo, anche se licenziato, usa generalmente
chiamare così la residenza dei suoi ultimi padroni.
Ma
dopo che lo sdegno della signora fu spento, ella sorrise per la vittoria
riportata.
— Non so davvero come io abbia sopportato così
a lungo quell’individuo, l’ubriachezza è grave difetto, particolarmente in un
conducente. Ebbi sovente motivo di sospettare, ma mai fino a oggi ne ebbi
conferma... E ora non mi resta che ringraziarla. Crede che la vettura sia
danneggiata?
— Non credo. La siepe è folta e cedevole.
— Sarà possibile toglierla di là? Ha qualche
pratica di automobili?
Se
aveva qualche pratica di automobili?
Rispose
che se ne intendeva alquanto, e si dispose ad esaminare il caso. Poi, con un
balzo al volante, egli fece retrocedere la macchina sulla strada.
— Nessuna avaria, — sentenziò.
— Vedo che lei sa guidare.
— Ho guidato un pò...
— Vorrei sapere se avrebbe la bontà di
condurmi a casa.
— Con infinito piacere.
— Non costituirà un’interruzione dei suoi
piani di viaggio?
Brussig
l’assicurò che non era punto il caso. Il suo cammino era nella direzione
segnata dal fato. E in questo momento egli lo doveva percorrere in una
bellissima automobile di gran lusso, i cui pregi, da esperto quale egli era,
non gli erano sfuggiti.
E
anche la signora era bella, decisamente attraente, pur non essendo molto
giovane. Nel salire sull’auto, la gonna della donna, che evidentemente aveva un
spacco, si aprì come un ventaglio e la gamba destra fu visibile sino al limite
dell’inguine. La donna sembrò non farci caso, ma Brussig era convinto che lei
si era accorta del suo sguardo avido.
Partirono.
La vettura procedeva leggera. Egli si sentiva contento al volante. Quanto alla
strada che stava percorrendo e alla meta che lo attendeva, nulla sapeva e nulla
voleva sapere. Era un’avventura interessante e ne sarebbe uscito qualche cosa.
Fosse un lavoro o una occasionale avventura sentimentale, era pur sempre
qualcosa che rompeva la monotonia della sua insignificante vita.
Di
tanto in tanto la sua compagna di viaggio gli indicava il cammino, ed egli
voltava a destra o a sinistra a seconda delle istruzioni che riceveva: il paese
gli era completamente nuovo. Cercò di indovinare ove si trovava, ma subito vi
rinunciò. Che gli importava?
Dopo
un buon tratto e dopo aver svoltato e aver percorso una strada laterale,
vennero a trovarsi davanti a due enormi cancelli attraverso i quali, al di
sopra della cima degli alberi, egli scorse emergere il luccichio del tetto e
dei camini. La casa era circondata da un’alta muraglia di mattoni, così almeno
credette vedere mentre si avvicinava: evidentemente era giunto in una comoda,
confortevole residenza.
Colà
arrivati, la signora mise fine alle congetture di Brussig, porgendogli un mazzo
di chiavi e pregandolo di aprire il cancello, dopo aver scelto quella destinata
all’uopo. Egli balzò a terra ed eseguì l’ordine, fece poi entrare la vettura e
richiuse il cancello.
La
signora, dopo avergli raccomandato di chiudere a doppia mandata, si sporse
dalla vettura per assicurarsi che l’operazione venisse eseguita a puntino.
Stese la mano per riavere le numerose chiavi che dimostravano come ella tenesse
molte cose sotto la sua vigile sorveglianza.
Un
sentiero tortuoso li condusse di fronte alla casa, un edificio bianco e
quadrato di due piani con importanti annessi. Egli saltò a terra e aprì lo
sportello della vettura.
— Siamo dunque giunti…. — egli disse.
Ella
lo guardò per un istante senza parlare.
Il
giovane vide i suoi vivi grandi occhi che l’osservavano attentamente e sentì di
esser esaminato e pesato. Per nulla turbato, rispose a quello sguardo,
sorridendo con grande calma, come persona sicura di sè.
— La ringrazio infinitamente, — ella
disse. — Non so che cosa sarebbe avvenuto
senza di lei, quell’uomo era terribilmente pericoloso.
— Sono lieto di averla servita, — disse
Brussig.
Ella
lo guardò nuovamente con occhio scrutatore e sperimentato. Aveva avanti a sè un
uomo straordinariamente bello, con una bocca espressiva e un paio d’occhi che
mandavano lampi di vivacità e di intelligenza. Si vedeva che ella non riusciva
facilmente a determinare la classe sociale a cui egli apparteneva. Poi indicò
l’angolo dell’edificio adiacente.
— Che direbbe se la pregassi di condurre la
macchina in rimessa? E non se ne vada, devo parlare con lei.
Egli
la vide poi dirigersi alla porta principale d’ingresso che aprì con una delle
sue chiavi. Si chiese dove erano i servi, dove gli abitanti della casa? Non si
vedeva anima viva e uno straordinario silenzio incombeva su tutta la dimora.
Ma
mentre si volgeva per risalire al volante, alzò involontariamente gli occhi e
scorse un pallido viso guatarlo da una delle finestre, attraverso le tende
scostate. Questa apparizione però fu subito celata dalle tendine rapidamente
riaccostate. Era stato un volto di uomo o di donna? La visione era stata troppo
rapida per poterne essere certo.
Condusse
l’automobile in rimessa e la ripose in ordine al suo posto, accese quindi una
sigaretta, disponendosi ad attendere la signora, quando vide un uomo lungo,
allampanato, avvicinarsi con fare circospetto. Reggeva un canestro di giunco
pieno di erbaggi, portava le ghette e grosse scarpe tutte inzaccherate di calce
e di fango. Si capiva che era un giardiniere o un bracciante colà occupato.
L’uomo
si appressò guardingo, strascicando le gambe in modo strano, come se le scarpe
fossero troppo pesanti per le sue esili gambe. Aveva un aspetto ributtante con
la sua faccia cadaverica e gli occhi imbambolati nascosti da folte irte
sopracciglia.
Brussig
lo salutò sorridendo, ma non ebbe risposta. L’uomo stava immobile davanti a lui
fissandolo con una strana espressione di antipatia. Brussig accentuò il suo
sorriso. Decisamente egli era caduto fra gente strana, incomprensibile.
— Dov’è Andreas? — disse il giardiniere.
— Andreas?
— Certamente. Nessuno qui sa trattare le
automobili, eccetto lui.
— Proprio così?
— E’ stata lei a licenziarlo?
— Lei?
L’uomo
ebbe uno sguardo furtivo, volgendo il capo da una parte, prima di rispondere...
Brussig comprese che quegli occhi esprimevano una specie di strano timore.
— Non so capire, — disse il giardiniere.
— Non sa capire che cosa?
— Come lei venga a prendere il posto di
Andreas. Credevo che fosse qui per tutta la vita come me.
— A quanto mi sembra qui si è in un luogo poco
piacevole.
— Lei ha detto bene, a quanto sembra.
Fece
un passo avanti col dito sul labbro e con un lampo di incredibile espressione
negli occhi.
— Ma quello che ella non sa...
Poi
si interruppe improvvisamente, una voce chiamò:
— Gismund!
Era
la signora, sua compagna d’ avventura. Ella si avvicinava, sorridendo.
— Una bella raccolta di ortaggi, — disse,
indicando il cesto. — Portateli in
cucina. Voi siete davvero il miglior giardiniere del circondario.
Gismund,
che, sentendosi chiamare, aveva cominciato a tremare, ebbe un vago sorriso
sulla pallida faccia quando intese il complimento e si allontanò camminando
penosamente.
Ella
lo seguì con lo sguardo finché disparve all’angolo della casa.
— Uno strano vecchio, — disse, — ma un abilissimo giardiniere.
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