La Morte aleggia a
Castel Glicine di Fiorenza Varden
Presentazione
Nella Milano degli anni 20 Valentina Imbesi, mentre è in
cerca di un lavoro, assiste ad una scena violenta. L'uomo che sta per morire le
affida un incarico. Recarsi all'Hotel Centro per prelevare qualcosa. Valentina
per mantenere la promessa fatta si reca sul luogo richiesto e.......dal quel
momento si trova calata in un'avventura ove la morte è sempre in agguato.
Incipit
Valentina Imbesi, dopo aver consultato ancora una volta le
indicazioni contenute nel pezzetto di carta che teneva nel taccuino, e che era
un avviso tolto dalla quarta pagina di un giornale quotidiano, si decise
finalmente a bussare alla porta dell'ufficio dinanzi al quale indugiava
perplessa da alcuni minuti.
Era una bella ragazza, Valentina Imbesi. Bella nel senso più
semplice della parola, se vogliamo, ma di una bellezza innegabile. Non troppo
alta, snella ed elegante della persona, possedeva il gusto innato di ciò che
meglio si addiceva al suo aspetto fiorente, ed avrebbe saputo vestirsi
signorilmente, se per poco glielo avessero consentito le deplorevoli
ristrettezze delle sue risorse finanziarie.
Nondimeno molte donne le invidiavano, non a torto, un superbo
casco di capelli biondi che i suoi adoratori chiamavano d'oro, e le invidiose «ne pepe nè sale», e che incorniciava di
un'aureola leggera il suo volto regolare e fresco come una rosa.
Costretta per forza alla rinunzia dei belli abiti lussuosi,
Valentina Imbesi riusciva però sempre a destare l'impressione di una persona «in ordine» e francamente nessuno avrebbe
osato pretendere un risultato maggiore dalla figlia di un povero avvocato morto
prima di aver avuto il tempo di fare fortuna.
La signora Imbesi, madre di Valentina, era una donna che,
senza averne l'aria, meritava, almeno in un certo senso, l'appellativo, spesso
usurpato, di superiore. Essa discendeva infatti da una famiglia che contava
ramificazioni nella più alta aristocrazia italiana, ma che in compenso aveva il
grave torto, abbastanza comune, di rinnegare quelle tra le sue congiunte le
quali, sposandosi e cambiando nome e posizione, perdevano, a suo avviso, ogni
diritto alla sua considerazione ed ai vantaggi annessi all'illustre parentela.
Valentina non era soltanto una bella ragazza. Era anche e
soprattutto una ragazza sufficientemente moderna per aspirare con tutte le
forze del suo giovane cuore ad una vita più larga e più intensa di quella che
poteva offrirle la permanenza nella casa materna situata nei pressi di Piazzale
Luigi Cadorna.
Perciò, non appena ottenuto il diploma di dattilografa e
senza informare di nulla la signora Imbesi, s'era affrettata a rispondere di
persona all'avviso più sopra accennato e nel quale si richiedeva appunto
un'abile dattilografa.
Trascorsi forse cinquanta secondi in vana attesa di qualcuno
che venisse ad aprirle, poiché udiva distintamente all'interno un rumore di
voci, Valentina spinse adagio adagio la porta dell'ufficio e ne oltrepassò
soglia.
Fermatasi sul limitare dell'anticamera, ella scorse con un
vago senso di diffidenza e di disgusto una seconda cameretta centrale non meno
sudicia e polverosa dell'entrata, e per ultimo, in fondo ad un terzo
bugigattolo che senza dubbio completava il poco attraente locale battezzato col
nome pomposo di ufficio, un giovanotto intento a giocare una parodia di partita
di «golf» per mezzo di un bastone e
di un grosso foglio di carta arrotolata a guisa di palla.
Evidentemente assorto nel suo puerile divertimento, lo
sconosciuto continuava impavido ad infliggere colpi energici all'innocuo
proiettile, senza curarsi del rapido esame cui lo sottoponevano gli occhi
azzurri di Valentina, e perfettamente ignaro del giudizio tutt'altro che
benevolo che si andava formulando a suo riguardo nella mente dell’acuta
osservatrice.
Finalmente, avvertito forse da un interno presentimento, il
giocatore, un individuo basso, magro, bruttissimo, trasalì, e abbassando con
prontezza il bastone si avanzò verso la visitatrice, con l'aria grave e
compunta e con un sorriso mellifluo sulle labbra pallide, domandò:
— Che cosa desidera la signorina?
Valentina assunse un contegno molto serio e molto dignitoso
per vincere il proprio imbarazzo, ma la sua voce tremava quando rispose:
— Desidererei... vorrei... ero venuta per parlare col signore
che ha fatto stampare l’avviso.
— Ah! sì, il signor Freda, il principale! — rispose il
giovane riacquistando per incanto la superiorità di un uomo di mondo davanti
alla palese inesperienza della sua interlocutrice. — Benissimo. Favorite,
favorite pure, signorina! ... Prego, accomodatevi... No, no, non qui...
Passiamo di là, se non vi dispiace.
E prendendo la fanciulla, la guidò nella stanza attigua a
quella d'entrata. Giunto colà si fermò un momento, e Valentina ebbe il tempo di
guardarsi intorno. Una macchina da scrivere relegata in un angolo, e due sedie,
una a destra e l'altra a sinistra di un tavolo, indicavano che quello
costituiva una specie di salotto molto semplice e molto primitivo, dove
probabilmente venivano ricevuti i rari clienti dell'ufficio.
Dopo una breve sosta ed una altrettanto breve esitazione, il
commesso, quasi avesse mutato avviso, riprese:
— No, sarà meglio che andiate addirittura nello studio
privato del signor Freda. Aspettiamo gente, che può arrivare anche subito.
— Ah! ma dunque il signor Freda non tarderà? — chiese a
questo punto Valentina, che incominciava a trovare strana l'accoglienza
titubante del dilettante di «golf»,
come l'assenza del suo padrone.
— Ecco... veramente...
— Che cosa? Spiegatevi, signore.
— Ebbene, il signor Freda non c'è, signorina. Ieri sera egli
è partito per Salò e non ha avvertito a che ora sarebbe ritornato. Ad ogni
modo, se non volete perdere la vostra visita, potete dire a me ciò che volevate
dire a lui, ed io glielo riferirò fedelmente.
— No, signore, vi ringrazio, ma preferisco parlare
direttamente con lui — replicò essa in tono deciso. In realtà la spaventava
l'idea di ripetere il suo tentativo, e sentiva che, se fosse uscita allora, le
sarebbe mancato il coraggio di ripresentarsi una seconda volta in
quell’equivoco ufficio di Milano.
— Come volete, signorina — concluse il giovane stringendosi
nelle spalle. E dopo una nuova pausa soggiunse:
— In questo caso però non vi dispiaccia di seguirmi di là,
dove starete molto più comoda.
Così dicendo, il commesso dell'ufficio introdusse la giovane
visitatrice nella terza ed ultima camera dell'alloggio, la quale tuttavia, più
che una stanza propriamente detta, era una specie di scompartimento ottenuto
mediante un tramezzo di legno, ma aveva il pavimento ricoperto da uno spesso
tappeto e conteneva, oltre ad un paio di poltrone, una piccola mensola carica
di scatole di sigarette, ed alcuni scaffali pieni di libri. Completava il
mobilio un tavolino su cui stavano un fucile e degli indumenti maschili.
Il commesso accese subito una stufetta elettrica, invitò la
signorina a sedere, le pose fra le mani l'ultimo numero di una rivista
illustrata e scomparve.
Rimasta sola, Valentina si lasciò cadere sopra una poltrona
e, deposto il giornale, si nascose le mani in grembo cercando di riscaldarle.
Era una giornata di ottobre fredda, ventosa e triste. Attraverso i vetri
dell’unica finestra chiusa, penetrava una luce fioca e sinistra, e l'atmosfera
della stanza già satura di fumo di tabacco diventò ben presto opprimente.
Disturbata fisicamente da quell'aria irrespirabile e
moralmente dal cupo silenzio che la circondava, la fanciulla si disponeva a
chiamare il commesso perchè aprisse i vetri o almeno spegnesse la stufa, quando
un rumore di voci la trattenne e la immobilizzo nell'attesa di un evento che,
per quanto desiderato, non cessava dall’inquietarla.
Le voci che risuonavano nell'entrata erano due e, pensando
che uno degli interlocutori potesse essere il signor Freda, la poverina si
preparò rapidamente ad incontrare l'individuo da cui dipendeva il suo avvenire.
Ma la trepida aspettativa fu vana. Il personaggio di cui
Valentina paventava e presentiva immediata l'apparizione rimase invisibile.
Nondimeno, a poco a poco le voci si avvicinarono ed ella potè distinguere
chiaramente quella del commesso che invitava qualcuno ad entrare, e comprese
che entrambi gli interlocutori erano passati nel salottino centrale.
Ma là il colloquio fra i due mutò tono, si fece intimo,
confidenziale, di modo che poche frasi soltanto ne giunsero al suo orecchio,
più che altro parole staccate ed a stento decifrabili. Infine il possessore
della seconda voce ignota, esclamò forte, quasi con un'ombra di irritazione:
— Va bene. Mi fermerò qui.
Valentina Imbesi rimase piacevolmente colpita dall'accento
caldo, simpatico, giovanile con cui era stata pronunziata quell’affermazione
energica, imperiosa. E poiché ella stessa era giovane, piena di fantasia, e
poiché la rivista illustrata non l'attirava né sapeva altrimenti offrire un
pascolo alla sua fervida immaginazione, cominciò a lambiccarsi il cervello alla
ricerca di un tipo d'uomo che rispondesse alla voce e all'accento misteriosi,
cercando di forgiarsi un'immagine atta a soddisfare il suo senso innato
dell'armonia e il risultato di quello sforzo non tardò a delinearsi. Si, senza
dubbio chi parlava così non poteva essere che un bel giovane, sano di mente e
di corpo, allegro di carattere, contento di sè e della vita.
Nel frattempo l’impiegato del signor Freda, il custode
dell'ufficio durante l'assenza del padrone, s'era chiuso nella prima camera
lasciando solo in quella di mezzo il visitatore, e intorno a Valentina era
ripiombato un silenzio quasi assoluto, a mala pena interrotto dal fruscio del
giornale che lo sconosciuto sfogliava lentamente, svogliatamente.
Ma, ad un tratto, egli scattò in piedi con un moto
d'impazienza e si mise a camminare a grandi passi su e giù par la stanza, ora
fischiettando a fior di labbro, ora borbottando esclamazioni sconnesse, ora
canterellando a mezza voce, in una lingua che Valentina non conosceva ma
giudicò fosse essere spagnola o portoghese.
La ragazza dal canto suo, pur provando una certa intima
compiacenza nell'assistere non vista a quelle varie espressioni di una
crescente nervosità nel personaggio di cui credeva d'indovinare i sentimenti,
incapace di resistere più a lungo al martirio imposto ai suoi polmoni ormai
assetati di aria pura, si avvicinò alla finestra e tentò di aprirla.
Tentò! Oh! sì, a più riprese, con energia disperata, quasi
con violenza. Il tentativo fu eseguito una, due, tre volte consecutive, ma
sempre invano! I cardini arrugginiti nell'inazione di molti anni e che
sorreggevano i due battenti a vetri, il saliscendi in ferro imprigionato tra
listelli di legno gonfi per l'umidità, si rifiutarono di obbedire al suo gesto
brusco, e l'ostacolo resistette impassibile, vinse tutti gli sforzi della
piccola mano inesperta.
Mentre la povera Valentina constatava con angoscia e con
rabbia insieme la propria impotenza, e mentre da uno scaffale, aderente alla
parete scossa dall'inutile assalto, rotolavano rumorosamente al suolo alcuni
volumi rilegati, la porta si socchiuse e nello spiraglio si delineò una testa.
Che testa! Tutta rossa di vergogna, tutta confusa e
mortificata, Valentina intravide un largo cappello molle, dall'ampia tesa e dal
centro a cono. Poi il cappello si abbassò come spinto da una molla, e la bella
curiosa ebbe un sorriso di trionfo.
Il possessore della calda voce simpatica e musicale era
dinanzi a lei! Prima ancora che egli parlasse, Valentina acquistò la certezza
matematica di quella proprietà diretta e inseparabile, e ne concepì una
soddisfazione immediata, convinta di non aver errato nell'attribuire quella
tale voce ad un tal uomo, sicura che un tale uomo non potesse avere se non
quella tale voce.
La testa in questione era infatti quella di un uomo già
lontano dalla prima gioventù, ma senza dubbio ancora giovane, dalla faccia
abbronzata, dalla bella barba fluente, dai grossi baffi spavaldi, dallo sguardo
giovialmente carezzevole, di un fascino particolare.
— Che cosa diavolo? Oh! mille scuse!
Egli aveva pronunziato la tronca domanda e l'umile scusa
nell'atto stesso di scoprirsi il capo, dopo di che tacque perplesso e parve
invocare una parola o un gesto che lo autorizzasse a proseguire.
Valentina Imbesi intuì il significato della sua muta
interrogazione, lesse nei suoi occhi chiari e luminosi il tacito, ardente
desiderio, e si affrettò ad appagarlo mormorando:
— Cercavo di aprire la finestra... Si soffoca, qui!
Egli allora egli avanzò tradendo la ferma intenzione di
dimostrarle la sua superiorità maschile di fronte alla debole donna che non
aveva saputo trionfarle di una finestra resistente, ma, passando davanti alla
sconosciuta, a cui preparava un lezione di destrezza e di vigore, s'inchinò
rispettosamente sussurrando con un sorriso:
— Permettete, signorina...
Valentina si trasse da un lato per lasciarlo libero nei suoi
movimenti, e stette a guardarlo in silenzio un pò sorpresa di vedere come egli
fosse alto e forte nella persona, di una statura e di una corporatura molto al
di sopra della media.
Osservatrice acuta per eccellenza, ella notò anche il taglio
dei suoi abiti non certo di sartoria italiana, e un non so che di esotico nella
sua fisionomia, in pieno accordo con la lunghezza forse eccessiva della barba e
dei capelli, con le ampie falde del cappello, e la rudezza un pò selvaggia dei
suoi modi. Chi mai era colui? Donde veniva? Che cosa voleva? Quale scopo lo
aveva condotto nell'equivoco ufficio del signor Freda?
— Ah! finalmente l'ho spuntata! — esclamò egli in tono di
trionfo quando, cedendo al suo polso d'acciaio, la finestra si decise a
spalancarsi. E voltando le spalle alla nebbia che entrava a ondate nella
stanza, fissò sulla fanciulla le pupille ridenti, spolverandosi le mani con un
grosso fazzoletto a colori e continuò: — Se non altro, così respirerete meglio.
Non dico che l'aria sia dolce, ma credo che in questo antro tenebroso, se si
dovesse aspettare il sole per aprirle, le finestre finirebbero per rimanere
chiuse in eterno!
— Chiamate Milano un antro tenebroso? — chiese essa con
un'ombra di stupore sdegnato.
— Certo! Non merita altro nome.
— Ah! ...
Alla sorda, soffocata esclamazione di Valentina tenne dietro
una pausa. Non era conveniente impegnare un lungo discorso con uno sconosciuto,
pensava la saggia giovane, già pentita di avere interloquito e d'altra parte,
anche volendolo, non avrebbe saputo che cosa dire.
Dal canto suo, il forestiero sembrava egli pure conscio
dell'opportunità di troncare il colloquio e continuava a pulirsi le mani ormai
pulite, nonché a sorridere dello stesso sorriso un pò vago e insignificante.
Siccome però il silenzio minacciava di diventarne noioso, egli
lo troncò bruscamente dicendo:
— Io vengo da un paese dove gli alberi sono alti come questa
casa e dove regna una temperatura divina.
— Davvero?
— Vero come è vero Iddio. Capirete dunque che dopo otto anni
passati in una primavera continua, il clima di Milano mi metta i brividi nelle
ossa e mi agghiacci il sangue nelle vene.
— Lo credo.
— E la gente? Altro che brividi, altro che ghiaccio! L'avevo
dimenticata completamente, la fisonomia di questo popolo nato e cresciuto nella
nebbia perenne, e adesso stento ad abituarmi di nuovo.
— Ma allora — domandò Valentina — se non vi piace, perchè
siete ritornato in Italia?
— Perchè vi sono tornato? Già, avrei fatto meglio a
rimanermene laggiù, nel tepore e nel sole. Ma non sempre si fa quello che si
vorrebbe ed il mio ritorno sotto il cielo plumbeo della Lombardia dipende da
molte... da tante cose che adesso sarebbe troppo lungo enumerare e la cui
enunciazione vi annoierebbe senza dubbio.
— Oh! ma io non intendevo...
— Per carità, non vi scusate! Se sapeste anzi come vi sono
grato! Sono felice, vedete, assolutamente felice del vostro interessamento
pietoso... della vostra benevola simpatia. Non avrei mai pensato che in questo
vecchio paese esistesse qualcuno capace di manifestare a mio riguardo un moto,
un impulso qualsiasi diverso dall’indifferenza generale: l'indifferenza crudele
che mi fa sentire come io sia estraneo fra gli estranei, sperduto tra i miei
simili. Fosse anche la vostra una semplice, una pura curiosità, la benedirei
come si benedice un grande, un immeritato favore.
A questo punto il contegno dell'uomo mutò. Quasi che
l'ostinato riserbo della sua interlocutrice avesse improvvisamente eccitato in
lui il desiderio di confidarsi senza ritegno a colei che rifiutava di
ascoltarlo, e lo spingesse a superare la barriera che li divideva, smascherando
l'incognito del proprio essere, rivelando il proprio passato e la propria
storia, egli riprese:
— Insomma, ecco qua. Otto anni or sono lasciai l'Italia
perchè restandoci avrei dato fastidio a qualcuno e partendo gli sgombravo la
strada. Oggi ci sono tornato perchè ho scoperto che mi si voleva tenere
lontano, e si pretendeva che mi astenessi da ritornarci. Proprio così, oggi i
miei gentili amici si auguravano nè più nè meno che io fossi morto, e per
questo, appunto, sono tornato. Ho avuto torto, forse?
— Oh! no, tutt'altro. Secondo me, al contrario, avete fatto
benissimo. Probabilmente era tempo che vi si sapesse in vita, sano e vegeto,
pronto a rivendicare il vostro posto nel mondo da cui vi si voleva bandire.
— Così credo anch'io, — replicò il forestiero come rallegrato
dall'approvazione ottenuta, — Ciò non toglie però che, date le circostanze, non
sarò certo il benvenuto.
— Ho paura che giudichiate male i vostri amici... — osservò a
buon conto, non osando contraddire apertamente il suo interlocutore.
Questi tuttavia lesse il dubbio nei belli occhi di lei, e
scuotendo tristemente il capo, ribattè in tono amaro:
— Io invece ho paura di giudicarli anche troppo bene, mia
gentile signorina! Vi basti sapere che essi mi hanno già mandato incontro un
ambasciatore per dirmi di ripartire subito, senza averli neanche veduti.
— Veramente?
— Sul mio onore. Non è molto lusinghiero, vero? Non nego che
dopo otto anni mi aspettavo qualche cosa di meglio... Ma mi accorgo che ho abusato
delia vostra cortesia, signorina. Perdonatemi. Sono un selvaggio ormai, un
vero, selvaggio.
In quel momento risuonò un colpo violento bussato alla porta
d'entrata e il barbuto signore, che già teneva la mano appoggiata sulla
maniglia dell'uscio di comunicazione fra le due stanze interne disponendosi,
per quanto a malincuore, a ritirarsi, ne approfittò per risolversi bruscamente
al passo difficile, scomparendo con un inchino.
Subito dopo, Valentina Imbesi udì la voce del commesso che
annunciava:
— C'è qualcuno che l’aspetta, signore
Poi quella dello sconosciuto che diceva con freddezza:
— Buongiorno.
E infine una terza voce, a lei completamente ignota, che
bisbigliava una frase qualunque in risposta al saluto glaciale. Quindi ebbe
luogo una pausa durante la quale il commesso ritornò nell'ingresso, dove lo
raggiunse un congedo in piena regola significatogli dal suo padrone sotto forma
di invito a recarsi a colazione.
Il giovanotto non se lo fece ripetere due volte, e dopo un
caloroso ringraziamento all'indirizzo del nuovo venuto, fuggi via con l'agilità
di uno scoiattolo. Valentina riconobbe il suo passo che si allontanava, il
rumore della porta che egli si era chiuso alle spalle, e notò con un brivido
come, rimasti soli, i due occupanti del salottino intermedio tenessero uno di
fronte all'altro un cupo silenzio.
In quell’intervallo di cui non avrebbe saputo precisare la
durata, la giovane cadde in preda ad un acuto senso di malessere e d'imbarazzo.
Tale impressione fisica e morale insieme andò man mano accentuandosi e toccò il
suo culmine quando finalmente fra i due invisibili personaggi s'iniziò un
colloquio filato e vivace.
Sebbene sicura che almeno uno dei due interlocutori non
ignorasse la sua presenza, Valentina Imbesi avrebbe evitato volentieri la possibilità,
non solo, ma la probabilità, a cui l'esponeva una vicinanza così immediata, di
cogliere a volo fin la minima parola di un discorso a cui il tono sommesso
conferiva un carattere intimo e privato.
Certo, poiché sapeva benissimo d'avere a breve distanza un
testimonio involontario, il possessore della magnifica barba avrebbe potuto
almeno fare in modo che la sua voce non giungesse ad altre orecchie oltre a
quelle cui la destinava, ma il fatto che il commesso era stato mandato via con
un pretesto qualunque appunto per impedirgli di ascoltare indicava chiaramente
nel suo padrone l'intenzione di serbare segreto il loro colloquio.
Ed ecco che, senza colpa di nessuno, la desiderata segretezza
non sarebbe stata ottenuta. Proprio a lei, Valentina Imbesi, toccava il poco
gradito incarico di presenziare a quel colloquio, d'assistere senza volerlo,
suo malgrado anzi, ad una conversazione che non la interessava nè molto nè
poco, fra due persone che non aveva mai visto, di cui non le importava
assolutamente niente!
A tutta prima, Valentina pensò di muoversi, di andarsene.
Sarebbe ritornata più tardi a parlare col signor Freda. Ma per uscire doveva
attraversare la camera di mezzo, disturbare il colloquio confidenziale,
spiegare la sua presenza all'avvocato, ammesso che si trattasse di lui. E se
non fosse stato lui?
Fermarsi doveva dunque; restare dov'era: sia pure! Ma doveva
anche cercare di non sentire, di non capire quello che non la riguardava
affatto; doveva almeno chiudere ben bene gli occhi e le orecchie!
E, spintasi in fondo alla stanza, la prigioniera si appoggiò
al muro, con la fronte stretta fra le mani, premendo i pollici sulle orecchie e
le altre dita sulle palpebre, in modo da isolarsi completamente da quanto la
circondava.
La posizione forzata a cui si era costretta non tardò per
altro a stancarla. Per quanto sorda a metà, la poverina continuava a percepire
il suono delle parole pronunziate poco discosto, e non appena quel suono
divenne violento ella riabbassò le mani, colpita da una angosciosa inquietudine.
Oh! insomma, non v'era dunque rimedio? Era dunque scritto che
ella dovesse fare la figura di una spia? Che cosa avrebbero pensato di lei,
quando si fossero accorti della sua presenza, le due persone di cui una senza
dubbio non la sospettava nemmeno e l'altra l'aveva certo dimenticata?
La più elementare prudenza come la più elementare delicatezza
non le additavano forse la necessità di troncare senza indugio una posizione di
cui intuiva le gravi, pericolose conseguenze? Ma come troncarla, gran Dio!
Come?
Ad un tratto, mentre, ancora combattuta tra l'urgenza di
scegliere un partito e la naturale timidezza che la tratteneva, la fanciulla
esitava a decidersi, lo scoppio irato di una voce la fece trasalire. Era quella
dell'uomo barbuto, e diceva:
— Per mille fulmini! ma sapete che mi sembra di essere caduto
in un covo di ladri?
Ad essa rispose subito la voce del suo compagno in tono assai
più mite ma altrettanto concitata e questa volta, per sua fortuna, Valentina
non riuscì ad afferrare il senso di ciascuna parola, ma soltanto a indovinare
in colui che parlava l'intenzione di disarmare la collera del suo
interlocutore, che, per quanto arenata, divampava ad intervalli in tronche
esclamazioni di sdegno e di furore.
Rassicurata tuttavia dalla bonaccia succeduta alla prima
tempesta, Valentina tornò a chiudersi le orecchie riuscendo questa volta assai
meglio nel suo intento, ed ottenendo cioè di non sorprendere il segreto del
sedato diverbio. Infine, avvedutasi del nuovo silenzio, che s'era stabilito
come per incanto nel salotto, ella rinunziò con un sospiro di sollievo
all'ormai inutile precauzione, liberando la sua fronte dalla stretta che
l'opprimeva.
I rumori che le giungevano dalla camera attigua erano adesso
di un'altra natura. Vi si distingueva il passo pesante di un uomo che andava e
veniva con rabbiosa impazienza sul duro tappeto, ansando e sbuffando come una
fiera in gabbia, e facendo tremare i mobili.
Dell'altro individuo, che pure non poteva essersi allontanato
nel frattempo, nessun indizio, nessun segno di vita. Valentina pensò per un
momento che la seconda voce da lei udita fosse cosa immaginaria, frutto della
sua fantasia. Ma si persuase ben presto di non aver sognato sentendo il
forestiero dalla barba fluente esclamare con virile energia:
— Ebbene, no! Non scriverò niente.
Tale affermazione, pronunziata in tono assoluto, che non
ammetteva repliche, fu seguita prima da una pausa, poi da uno strano rumore,
come di qualche cosa molto pesante che precipitasse al suolo, e quindi da un
gemito straziante. Allora Valentina si slanciò risolutamente verso la porta e
tentò di spingerla. Ma sebbene non fosse chiusa a chiave, essa non si aprì, per
la semplice ragione che un invisibile ostacolo la sbarrava dall'esterno.
Intanto il gemito misterioso continuava ad affievolirsi e,
poichè era impossibile dubitare più a lungo dell'indole di quel tragico suono,
voce di pena e di dolore, la giovinetta raddoppiò i suoi sforzi volendo a tutti
i costi sapere che cosa fosse successo, volendo vedere a tutti i costi chi fosse
il caduto, ferito o morente!
Ma, non appena riuscì a praticare uno spiraglio tra i due
battenti, e prima che lo spazio conquistato fosse abbastanza libero da
permetterle uno sguardo dal lato opposto, la porta si richiuse violentemente e
la chiave girò nella serratura.
— Aprite! aprite! — urlò la poverina fuori di sè, tempestando
di colpi frenetici la barriera che si frapponeva, al suo desiderio di vedere.
— Aprite! Aprite!
Nessuno rispose, e per qualche secondo tutto tacque
d'intorno. Poi, un passo furtivo si diresse alla porta d'entrata, questa cigolò
sui cardini, si richiuse, ed il passo si perse nella strada.
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