lunedì 11 aprile 2016

La Morte aleggia a Castel Glicine



La Morte aleggia a Castel Glicine di Fiorenza Varden

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Presentazione
Nella Milano degli anni 20 Valentina Imbesi, mentre è in cerca di un lavoro, assiste ad una scena violenta. L'uomo che sta per morire le affida un incarico. Recarsi all'Hotel Centro per prelevare qualcosa. Valentina per mantenere la promessa fatta si reca sul luogo richiesto e.......dal quel momento si trova calata in un'avventura ove la morte è sempre in agguato.
Incipit
Valentina Imbesi, dopo aver consultato ancora una volta le indicazioni contenute nel pezzetto di carta che teneva nel taccuino, e che era un avviso tolto dalla quarta pagina di un giornale quotidiano, si decise finalmente a bussare alla porta dell'ufficio dinanzi al quale indugiava perplessa da alcuni minuti.
Era una bella ragazza, Valentina Imbesi. Bella nel senso più semplice della parola, se vogliamo, ma di una bellezza innegabile. Non troppo alta, snella ed elegante della persona, possedeva il gusto innato di ciò che meglio si addiceva al suo aspetto fiorente, ed avrebbe saputo vestirsi signorilmente, se per poco glielo avessero consentito le deplorevoli ristrettezze delle sue risorse finanziarie.
Nondimeno molte donne le invidiavano, non a torto, un superbo casco di capelli biondi che i suoi adoratori chiamavano d'oro, e le invidiose «ne pepe nè sale», e che incorniciava di un'aureola leggera il suo volto regolare e fresco come una rosa.
Costretta per forza alla rinunzia dei belli abiti lussuosi, Valentina Imbesi riusciva però sempre a destare l'impressione di una persona «in ordine» e francamente nessuno avrebbe osato pretendere un risultato maggiore dalla figlia di un povero avvocato morto prima di aver avuto il tempo di fare fortuna.
La signora Imbesi, madre di Valentina, era una donna che, senza averne l'aria, meritava, almeno in un certo senso, l'appellativo, spesso usurpato, di superiore. Essa discendeva infatti da una famiglia che contava ramificazioni nella più alta aristocrazia italiana, ma che in compenso aveva il grave torto, abbastanza comune, di rinnegare quelle tra le sue congiunte le quali, sposandosi e cambiando nome e posizione, perdevano, a suo avviso, ogni diritto alla sua considerazione ed ai vantaggi annessi all'illustre parentela.
Valentina non era soltanto una bella ragazza. Era anche e soprattutto una ragazza sufficientemente moderna per aspirare con tutte le forze del suo giovane cuore ad una vita più larga e più intensa di quella che poteva offrirle la permanenza nella casa materna situata nei pressi di Piazzale Luigi Cadorna.
Perciò, non appena ottenuto il diploma di dattilografa e senza informare di nulla la signora Imbesi, s'era affrettata a rispondere di persona all'avviso più sopra accennato e nel quale si richiedeva appunto un'abile dattilografa.
Trascorsi forse cinquanta secondi in vana attesa di qualcuno che venisse ad aprirle, poiché udiva distintamente all'interno un rumore di voci, Valentina spinse adagio adagio la porta dell'ufficio e ne oltrepassò soglia.
Fermatasi sul limitare dell'anticamera, ella scorse con un vago senso di diffidenza e di disgusto una seconda cameretta centrale non meno sudicia e polverosa dell'entrata, e per ultimo, in fondo ad un terzo bugigattolo che senza dubbio completava il poco attraente locale battezzato col nome pomposo di ufficio, un giovanotto intento a giocare una parodia di partita di «golf» per mezzo di un bastone e di un grosso foglio di carta arrotolata a guisa di palla.
Evidentemente assorto nel suo puerile divertimento, lo sconosciuto continuava impavido ad infliggere colpi energici all'innocuo proiettile, senza curarsi del rapido esame cui lo sottoponevano gli occhi azzurri di Valentina, e perfettamente ignaro del giudizio tutt'altro che benevolo che si andava formulando a suo riguardo nella mente dell’acuta osservatrice.
Finalmente, avvertito forse da un interno presentimento, il giocatore, un individuo basso, magro, bruttissimo, trasalì, e abbassando con prontezza il bastone si avanzò verso la visitatrice, con l'aria grave e compunta e con un sorriso mellifluo sulle labbra pallide, domandò:
— Che cosa desidera la signorina?
Valentina assunse un contegno molto serio e molto dignitoso per vincere il proprio imbarazzo, ma la sua voce tremava quando rispose:
— Desidererei... vorrei... ero venuta per parlare col signore che ha fatto stampare l’avviso.
— Ah! sì, il signor Freda, il principale! — rispose il giovane riacquistando per incanto la superiorità di un uomo di mondo davanti alla palese inesperienza della sua interlocutrice. — Benissimo. Favorite, favorite pure, signorina! ... Prego, accomodatevi... No, no, non qui... Passiamo di là, se non vi dispiace.
E prendendo la fanciulla, la guidò nella stanza attigua a quella d'entrata. Giunto colà si fermò un momento, e Valentina ebbe il tempo di guardarsi intorno. Una macchina da scrivere relegata in un angolo, e due sedie, una a destra e l'altra a sinistra di un tavolo, indicavano che quello costituiva una specie di salotto molto semplice e molto primitivo, dove probabilmente venivano ricevuti i rari clienti dell'ufficio.
Dopo una breve sosta ed una altrettanto breve esitazione, il commesso, quasi avesse mutato avviso, riprese:
— No, sarà meglio che andiate addirittura nello studio privato del signor Freda. Aspettiamo gente, che può arrivare anche subito.
— Ah! ma dunque il signor Freda non tarderà? — chiese a questo punto Valentina, che incominciava a trovare strana l'accoglienza titubante del dilettante di «golf», come l'assenza del suo padrone.
— Ecco... veramente...
— Che cosa? Spiegatevi, signore.
— Ebbene, il signor Freda non c'è, signorina. Ieri sera egli è partito per Salò e non ha avvertito a che ora sarebbe ritornato. Ad ogni modo, se non volete perdere la vostra visita, potete dire a me ciò che volevate dire a lui, ed io glielo riferirò fedelmente.
— No, signore, vi ringrazio, ma preferisco parlare direttamente con lui — replicò essa in tono deciso. In realtà la spaventava l'idea di ripetere il suo tentativo, e sentiva che, se fosse uscita allora, le sarebbe mancato il coraggio di ripresentarsi una seconda volta in quell’equivoco ufficio di Milano.
— Come volete, signorina — concluse il giovane stringendosi nelle spalle. E dopo una nuova pausa soggiunse:
— In questo caso però non vi dispiaccia di seguirmi di là, dove starete molto più comoda.
Così dicendo, il commesso dell'ufficio introdusse la giovane visitatrice nella terza ed ultima camera dell'alloggio, la quale tuttavia, più che una stanza propriamente detta, era una specie di scompartimento ottenuto mediante un tramezzo di legno, ma aveva il pavimento ricoperto da uno spesso tappeto e conteneva, oltre ad un paio di poltrone, una piccola mensola carica di scatole di sigarette, ed alcuni scaffali pieni di libri. Completava il mobilio un tavolino su cui stavano un fucile e degli indumenti maschili.
Il commesso accese subito una stufetta elettrica, invitò la signorina a sedere, le pose fra le mani l'ultimo numero di una rivista illustrata e scomparve.
Rimasta sola, Valentina si lasciò cadere sopra una poltrona e, deposto il giornale, si nascose le mani in grembo cercando di riscaldarle. Era una giornata di ottobre fredda, ventosa e triste. Attraverso i vetri dell’unica finestra chiusa, penetrava una luce fioca e sinistra, e l'atmosfera della stanza già satura di fumo di tabacco diventò ben presto opprimente.
Disturbata fisicamente da quell'aria irrespirabile e moralmente dal cupo silenzio che la circondava, la fanciulla si disponeva a chiamare il commesso perchè aprisse i vetri o almeno spegnesse la stufa, quando un rumore di voci la trattenne e la immobilizzo nell'attesa di un evento che, per quanto desiderato, non cessava dall’inquietarla.
Le voci che risuonavano nell'entrata erano due e, pensando che uno degli interlocutori potesse essere il signor Freda, la poverina si preparò rapidamente ad incontrare l'individuo da cui dipendeva il suo avvenire.
Ma la trepida aspettativa fu vana. Il personaggio di cui Valentina paventava e presentiva immediata l'apparizione rimase invisibile. Nondimeno, a poco a poco le voci si avvicinarono ed ella potè distinguere chiaramente quella del commesso che invitava qualcuno ad entrare, e comprese che entrambi gli interlocutori erano passati nel salottino centrale.
Ma là il colloquio fra i due mutò tono, si fece intimo, confidenziale, di modo che poche frasi soltanto ne giunsero al suo orecchio, più che altro parole staccate ed a stento decifrabili. Infine il possessore della seconda voce ignota, esclamò forte, quasi con un'ombra di irritazione:
— Va bene. Mi fermerò qui.
Valentina Imbesi rimase piacevolmente colpita dall'accento caldo, simpatico, giovanile con cui era stata pronunziata quell’affermazione energica, imperiosa. E poiché ella stessa era giovane, piena di fantasia, e poiché la rivista illustrata non l'attirava né sapeva altrimenti offrire un pascolo alla sua fervida immaginazione, cominciò a lambiccarsi il cervello alla ricerca di un tipo d'uomo che rispondesse alla voce e all'accento misteriosi, cercando di forgiarsi un'immagine atta a soddisfare il suo senso innato dell'armonia e il risultato di quello sforzo non tardò a delinearsi. Si, senza dubbio chi parlava così non poteva essere che un bel giovane, sano di mente e di corpo, allegro di carattere, contento di sè e della vita.
Nel frattempo l’impiegato del signor Freda, il custode dell'ufficio durante l'assenza del padrone, s'era chiuso nella prima camera lasciando solo in quella di mezzo il visitatore, e intorno a Valentina era ripiombato un silenzio quasi assoluto, a mala pena interrotto dal fruscio del giornale che lo sconosciuto sfogliava lentamente, svogliatamente.
Ma, ad un tratto, egli scattò in piedi con un moto d'impazienza e si mise a camminare a grandi passi su e giù par la stanza, ora fischiettando a fior di labbro, ora borbottando esclamazioni sconnesse, ora canterellando a mezza voce, in una lingua che Valentina non conosceva ma giudicò fosse essere spagnola o portoghese.
La ragazza dal canto suo, pur provando una certa intima compiacenza nell'assistere non vista a quelle varie espressioni di una crescente nervosità nel personaggio di cui credeva d'indovinare i sentimenti, incapace di resistere più a lungo al martirio imposto ai suoi polmoni ormai assetati di aria pura, si avvicinò alla finestra e tentò di aprirla.
Tentò! Oh! sì, a più riprese, con energia disperata, quasi con violenza. Il tentativo fu eseguito una, due, tre volte consecutive, ma sempre invano! I cardini arrugginiti nell'inazione di molti anni e che sorreggevano i due battenti a vetri, il saliscendi in ferro imprigionato tra listelli di legno gonfi per l'umidità, si rifiutarono di obbedire al suo gesto brusco, e l'ostacolo resistette impassibile, vinse tutti gli sforzi della piccola mano inesperta.
Mentre la povera Valentina constatava con angoscia e con rabbia insieme la propria impotenza, e mentre da uno scaffale, aderente alla parete scossa dall'inutile assalto, rotolavano rumorosamente al suolo alcuni volumi rilegati, la porta si socchiuse e nello spiraglio si delineò una testa.
Che testa! Tutta rossa di vergogna, tutta confusa e mortificata, Valentina intravide un largo cappello molle, dall'ampia tesa e dal centro a cono. Poi il cappello si abbassò come spinto da una molla, e la bella curiosa ebbe un sorriso di trionfo.
Il possessore della calda voce simpatica e musicale era dinanzi a lei! Prima ancora che egli parlasse, Valentina acquistò la certezza matematica di quella proprietà diretta e inseparabile, e ne concepì una soddisfazione immediata, convinta di non aver errato nell'attribuire quella tale voce ad un tal uomo, sicura che un tale uomo non potesse avere se non quella tale voce.
La testa in questione era infatti quella di un uomo già lontano dalla prima gioventù, ma senza dubbio ancora giovane, dalla faccia abbronzata, dalla bella barba fluente, dai grossi baffi spavaldi, dallo sguardo giovialmente carezzevole, di un fascino particolare.
— Che cosa diavolo? Oh! mille scuse!
Egli aveva pronunziato la tronca domanda e l'umile scusa nell'atto stesso di scoprirsi il capo, dopo di che tacque perplesso e parve invocare una parola o un gesto che lo autorizzasse a proseguire.
Valentina Imbesi intuì il significato della sua muta interrogazione, lesse nei suoi occhi chiari e luminosi il tacito, ardente desiderio, e si affrettò ad appagarlo mormorando:
— Cercavo di aprire la finestra... Si soffoca, qui!
Egli allora egli avanzò tradendo la ferma intenzione di dimostrarle la sua superiorità maschile di fronte alla debole donna che non aveva saputo trionfarle di una finestra resistente, ma, passando davanti alla sconosciuta, a cui preparava un lezione di destrezza e di vigore, s'inchinò rispettosamente sussurrando con un sorriso:
— Permettete, signorina...
Valentina si trasse da un lato per lasciarlo libero nei suoi movimenti, e stette a guardarlo in silenzio un pò sorpresa di vedere come egli fosse alto e forte nella persona, di una statura e di una corporatura molto al di sopra della media.
Osservatrice acuta per eccellenza, ella notò anche il taglio dei suoi abiti non certo di sartoria italiana, e un non so che di esotico nella sua fisionomia, in pieno accordo con la lunghezza forse eccessiva della barba e dei capelli, con le ampie falde del cappello, e la rudezza un pò selvaggia dei suoi modi. Chi mai era colui? Donde veniva? Che cosa voleva? Quale scopo lo aveva condotto nell'equivoco ufficio del signor Freda?
— Ah! finalmente l'ho spuntata! — esclamò egli in tono di trionfo quando, cedendo al suo polso d'acciaio, la finestra si decise a spalancarsi. E voltando le spalle alla nebbia che entrava a ondate nella stanza, fissò sulla fanciulla le pupille ridenti, spolverandosi le mani con un grosso fazzoletto a colori e continuò: — Se non altro, così respirerete meglio. Non dico che l'aria sia dolce, ma credo che in questo antro tenebroso, se si dovesse aspettare il sole per aprirle, le finestre finirebbero per rimanere chiuse in eterno!
— Chiamate Milano un antro tenebroso? — chiese essa con un'ombra di stupore sdegnato.
— Certo! Non merita altro nome.
— Ah! ...
Alla sorda, soffocata esclamazione di Valentina tenne dietro una pausa. Non era conveniente impegnare un lungo discorso con uno sconosciuto, pensava la saggia giovane, già pentita di avere interloquito e d'altra parte, anche volendolo, non avrebbe saputo che cosa dire.
Dal canto suo, il forestiero sembrava egli pure conscio dell'opportunità di troncare il colloquio e continuava a pulirsi le mani ormai pulite, nonché a sorridere dello stesso sorriso un pò vago e insignificante.
Siccome però il silenzio minacciava di diventarne noioso, egli lo troncò bruscamente dicendo:
— Io vengo da un paese dove gli alberi sono alti come questa casa e dove regna una temperatura divina.
— Davvero?
— Vero come è vero Iddio. Capirete dunque che dopo otto anni passati in una primavera continua, il clima di Milano mi metta i brividi nelle ossa e mi agghiacci il sangue nelle vene.
— Lo credo.
— E la gente? Altro che brividi, altro che ghiaccio! L'avevo dimenticata completamente, la fisonomia di questo popolo nato e cresciuto nella nebbia perenne, e adesso stento ad abituarmi di nuovo.
— Ma allora — domandò Valentina — se non vi piace, perchè siete ritornato in Italia?
— Perchè vi sono tornato? Già, avrei fatto meglio a rimanermene laggiù, nel tepore e nel sole. Ma non sempre si fa quello che si vorrebbe ed il mio ritorno sotto il cielo plumbeo della Lombardia dipende da molte... da tante cose che adesso sarebbe troppo lungo enumerare e la cui enunciazione vi annoierebbe senza dubbio.
— Oh! ma io non intendevo...
— Per carità, non vi scusate! Se sapeste anzi come vi sono grato! Sono felice, vedete, assolutamente felice del vostro interessamento pietoso... della vostra benevola simpatia. Non avrei mai pensato che in questo vecchio paese esistesse qualcuno capace di manifestare a mio riguardo un moto, un impulso qualsiasi diverso dall’indifferenza generale: l'indifferenza crudele che mi fa sentire come io sia estraneo fra gli estranei, sperduto tra i miei simili. Fosse anche la vostra una semplice, una pura curiosità, la benedirei come si benedice un grande, un immeritato favore.
A questo punto il contegno dell'uomo mutò. Quasi che l'ostinato riserbo della sua interlocutrice avesse improvvisamente eccitato in lui il desiderio di confidarsi senza ritegno a colei che rifiutava di ascoltarlo, e lo spingesse a superare la barriera che li divideva, smascherando l'incognito del proprio essere, rivelando il proprio passato e la propria storia, egli riprese:
— Insomma, ecco qua. Otto anni or sono lasciai l'Italia perchè restandoci avrei dato fastidio a qualcuno e partendo gli sgombravo la strada. Oggi ci sono tornato perchè ho scoperto che mi si voleva tenere lontano, e si pretendeva che mi astenessi da ritornarci. Proprio così, oggi i miei gentili amici si auguravano nè più nè meno che io fossi morto, e per questo, appunto, sono tornato. Ho avuto torto, forse?
— Oh! no, tutt'altro. Secondo me, al contrario, avete fatto benissimo. Probabilmente era tempo che vi si sapesse in vita, sano e vegeto, pronto a rivendicare il vostro posto nel mondo da cui vi si voleva bandire.
— Così credo anch'io, — replicò il forestiero come rallegrato dall'approvazione ottenuta, — Ciò non toglie però che, date le circostanze, non sarò certo il benvenuto.
— Ho paura che giudichiate male i vostri amici... — osservò a buon conto, non osando contraddire apertamente il suo interlocutore.
Questi tuttavia lesse il dubbio nei belli occhi di lei, e scuotendo tristemente il capo, ribattè in tono amaro:
— Io invece ho paura di giudicarli anche troppo bene, mia gentile signorina! Vi basti sapere che essi mi hanno già mandato incontro un ambasciatore per dirmi di ripartire subito, senza averli neanche veduti.
— Veramente?
— Sul mio onore. Non è molto lusinghiero, vero? Non nego che dopo otto anni mi aspettavo qualche cosa di meglio... Ma mi accorgo che ho abusato delia vostra cortesia, signorina. Perdonatemi. Sono un selvaggio ormai, un vero, selvaggio.
In quel momento risuonò un colpo violento bussato alla porta d'entrata e il barbuto signore, che già teneva la mano appoggiata sulla maniglia dell'uscio di comunicazione fra le due stanze interne disponendosi, per quanto a malincuore, a ritirarsi, ne approfittò per risolversi bruscamente al passo difficile, scomparendo con un inchino.
Subito dopo, Valentina Imbesi udì la voce del commesso che annunciava:
— C'è qualcuno che l’aspetta, signore
Poi quella dello sconosciuto che diceva con freddezza:
— Buongiorno.
E infine una terza voce, a lei completamente ignota, che bisbigliava una frase qualunque in risposta al saluto glaciale. Quindi ebbe luogo una pausa durante la quale il commesso ritornò nell'ingresso, dove lo raggiunse un congedo in piena regola significatogli dal suo padrone sotto forma di invito a recarsi a colazione.
Il giovanotto non se lo fece ripetere due volte, e dopo un caloroso ringraziamento all'indirizzo del nuovo venuto, fuggi via con l'agilità di uno scoiattolo. Valentina riconobbe il suo passo che si allontanava, il rumore della porta che egli si era chiuso alle spalle, e notò con un brivido come, rimasti soli, i due occupanti del salottino intermedio tenessero uno di fronte all'altro un cupo silenzio.
In quell’intervallo di cui non avrebbe saputo precisare la durata, la giovane cadde in preda ad un acuto senso di malessere e d'imbarazzo. Tale impressione fisica e morale insieme andò man mano accentuandosi e toccò il suo culmine quando finalmente fra i due invisibili personaggi s'iniziò un colloquio filato e vivace.
Sebbene sicura che almeno uno dei due interlocutori non ignorasse la sua presenza, Valentina Imbesi avrebbe evitato volentieri la possibilità, non solo, ma la probabilità, a cui l'esponeva una vicinanza così immediata, di cogliere a volo fin la minima parola di un discorso a cui il tono sommesso conferiva un carattere intimo e privato.
Certo, poiché sapeva benissimo d'avere a breve distanza un testimonio involontario, il possessore della magnifica barba avrebbe potuto almeno fare in modo che la sua voce non giungesse ad altre orecchie oltre a quelle cui la destinava, ma il fatto che il commesso era stato mandato via con un pretesto qualunque appunto per impedirgli di ascoltare indicava chiaramente nel suo padrone l'intenzione di serbare segreto il loro colloquio.
Ed ecco che, senza colpa di nessuno, la desiderata segretezza non sarebbe stata ottenuta. Proprio a lei, Valentina Imbesi, toccava il poco gradito incarico di presenziare a quel colloquio, d'assistere senza volerlo, suo malgrado anzi, ad una conversazione che non la interessava nè molto nè poco, fra due persone che non aveva mai visto, di cui non le importava assolutamente niente!
A tutta prima, Valentina pensò di muoversi, di andarsene. Sarebbe ritornata più tardi a parlare col signor Freda. Ma per uscire doveva attraversare la camera di mezzo, disturbare il colloquio confidenziale, spiegare la sua presenza all'avvocato, ammesso che si trattasse di lui. E se non fosse stato lui?
Fermarsi doveva dunque; restare dov'era: sia pure! Ma doveva anche cercare di non sentire, di non capire quello che non la riguardava affatto; doveva almeno chiudere ben bene gli occhi e le orecchie!
E, spintasi in fondo alla stanza, la prigioniera si appoggiò al muro, con la fronte stretta fra le mani, premendo i pollici sulle orecchie e le altre dita sulle palpebre, in modo da isolarsi completamente da quanto la circondava.
La posizione forzata a cui si era costretta non tardò per altro a stancarla. Per quanto sorda a metà, la poverina continuava a percepire il suono delle parole pronunziate poco discosto, e non appena quel suono divenne violento ella riabbassò le mani, colpita da una angosciosa inquietudine.
Oh! insomma, non v'era dunque rimedio? Era dunque scritto che ella dovesse fare la figura di una spia? Che cosa avrebbero pensato di lei, quando si fossero accorti della sua presenza, le due persone di cui una senza dubbio non la sospettava nemmeno e l'altra l'aveva certo dimenticata?
La più elementare prudenza come la più elementare delicatezza non le additavano forse la necessità di troncare senza indugio una posizione di cui intuiva le gravi, pericolose conseguenze? Ma come troncarla, gran Dio! Come?
Ad un tratto, mentre, ancora combattuta tra l'urgenza di scegliere un partito e la naturale timidezza che la tratteneva, la fanciulla esitava a decidersi, lo scoppio irato di una voce la fece trasalire. Era quella dell'uomo barbuto, e diceva:
— Per mille fulmini! ma sapete che mi sembra di essere caduto in un covo di ladri?
Ad essa rispose subito la voce del suo compagno in tono assai più mite ma altrettanto concitata e questa volta, per sua fortuna, Valentina non riuscì ad afferrare il senso di ciascuna parola, ma soltanto a indovinare in colui che parlava l'intenzione di disarmare la collera del suo interlocutore, che, per quanto arenata, divampava ad intervalli in tronche esclamazioni di sdegno e di furore.
Rassicurata tuttavia dalla bonaccia succeduta alla prima tempesta, Valentina tornò a chiudersi le orecchie riuscendo questa volta assai meglio nel suo intento, ed ottenendo cioè di non sorprendere il segreto del sedato diverbio. Infine, avvedutasi del nuovo silenzio, che s'era stabilito come per incanto nel salotto, ella rinunziò con un sospiro di sollievo all'ormai inutile precauzione, liberando la sua fronte dalla stretta che l'opprimeva.
I rumori che le giungevano dalla camera attigua erano adesso di un'altra natura. Vi si distingueva il passo pesante di un uomo che andava e veniva con rabbiosa impazienza sul duro tappeto, ansando e sbuffando come una fiera in gabbia, e facendo tremare i mobili.
Dell'altro individuo, che pure non poteva essersi allontanato nel frattempo, nessun indizio, nessun segno di vita. Valentina pensò per un momento che la seconda voce da lei udita fosse cosa immaginaria, frutto della sua fantasia. Ma si persuase ben presto di non aver sognato sentendo il forestiero dalla barba fluente esclamare con virile energia:
— Ebbene, no! Non scriverò niente.
Tale affermazione, pronunziata in tono assoluto, che non ammetteva repliche, fu seguita prima da una pausa, poi da uno strano rumore, come di qualche cosa molto pesante che precipitasse al suolo, e quindi da un gemito straziante. Allora Valentina si slanciò risolutamente verso la porta e tentò di spingerla. Ma sebbene non fosse chiusa a chiave, essa non si aprì, per la semplice ragione che un invisibile ostacolo la sbarrava dall'esterno.
Intanto il gemito misterioso continuava ad affievolirsi e, poichè era impossibile dubitare più a lungo dell'indole di quel tragico suono, voce di pena e di dolore, la giovinetta raddoppiò i suoi sforzi volendo a tutti i costi sapere che cosa fosse successo, volendo vedere a tutti i costi chi fosse il caduto, ferito o morente!
Ma, non appena riuscì a praticare uno spiraglio tra i due battenti, e prima che lo spazio conquistato fosse abbastanza libero da permetterle uno sguardo dal lato opposto, la porta si richiuse violentemente e la chiave girò nella serratura.
— Aprite! aprite! — urlò la poverina fuori di sè, tempestando di colpi frenetici la barriera che si frapponeva, al suo desiderio di vedere.
— Aprite! Aprite!

Nessuno rispose, e per qualche secondo tutto tacque d'intorno. Poi, un passo furtivo si diresse alla porta d'entrata, questa cigolò sui cardini, si richiuse, ed il passo si perse nella strada.

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