lunedì 11 aprile 2016

Il Rubino di Mata Hari



Il Rubino di Mata Hari di Owen J. David

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Presentazione
Una sera durante un party viene rubato il rubino di Mata Hari dato in prestito da Riccardo Sicardo alla bella Roberta Marano. Nell’Italia fascista del 1934 l’investigatore privato Nardini svolge le sue indagini per dipanare quello che sembra un caso irrisolvibile. Il finale sarà per i lettori una vera sorpresa.
Giallo atipico, abbiamo il morto ma su questo non indaga nessuno. E’ il furto quello che interessa e su cui ruotano le avventure di donne belle ed affascinanti.
Incipit
Il giorno in cui avvenne l’arresto della danzatrice Mata Hari, Parigi visse una delle sue grandi giornate. La guerra, che pure aveva abituato gli animi a tutti i colpi di scena, registrava pochi avvenimenti di ordine politico e mondano che potessero sollevare un’impressione più sensazionale, dalle anticamere dell’Eliseo ai grigi e fumosi cantieri della «banlieue» parigina.
Il nome della baiadera indiana risuonava nei discorsi di tutti. Ognuno immaginava il suo corpo oscuro e fulvo, bruciato dal fulgore dei brillanti, consacrato agli amori dei ministri e dei principi, ora disteso con la sua lunga dolosità felina sul duro assito del carcere di St. Lazare.
Per ricordare un simile trambusto, un uguale turbamento della fantasia popolare, bisognerebbe risalire con la memoria al giorno dell’arresto di madame Marguerite Jeanne Steinheil, famosa per aver avvelenato Félix Faure per conto del sindacato ebraico.
Nelle prime ore del mattino, un drappello di Polizia guidato dal commissario Triolet — funzionario che già più volte aveva condotti a buon termine incarichi delicati e missioni di fiducia — entrò improvvisamente all’hotel Alhambra, senz’alcun apparato di forza, nè visibile nè dissimulato. Mentre una coppia di agenti in borghese rimaneva presso l’entrata, e l’altra si avvicinava ad un tavolino per sfogliarvi macchinalmente una rivista, il commissario Triolet, rivoltosi al «bureau», chiese di parlare al gerente dell’albergo.
Un portiere, di quelli ancor troppo inesperti per riconoscere con un’occhiata gli uomini della Polizia, si mise a contemplare sorridendo le sfere d’una pendola, e con un garbo ironico, nel quale si tradiva tutto il suo disprezzo per quel visitatore ingenuo il quale supponeva che il direttore di un albergo elegante fosse già levato a quelle ore del mattino, rispose al commissario Triolet:
— Vogliate tornare verso le dieci. Solo allora il nostro direttore potrà ricevervi.
Monsieur Triolet, con uno di quei gesti risoluti e brevi degli uomini avvezzi a parare tutte le fughe, allungò sotto il naso del faceto portiere la sua tessera di Commissario speciale, che spense come d’incanto il serafico sorriso aleggiante su le labbra del giovine malaccorto.
Questi si precipitò al telefono, e pochi minuti dopo monsieur Danzac, balzato dal letto in fretta e furia, scendeva a ricevere il Commissario, con il quale non ebbe che un breve scambio di parole, pronunziate a bassa voce. Poi, accompagnati da una coppia d’agenti e seguiti a distanza dagli altri due, salirono nel corridoio dov’era la camera della sedicente contessa Mac Léod.
Il Commissario, decisamente, battè con le nocche due colpi all’uscio.
Nessuno rispose.
Un gruppo di camerieri, di facchini e di cameriere dell’albergo, messi in allarme da quella novità mattutina, incominciavano a raggrupparsi, bisbigliando, in fondo al corridoio.
— Andate via! — fece monsieur Danzac con un gesto autoritario. — Non avete altro da fare.
E il gruppo si sparpagliò rapidamente, salvo riformarsi poco dopo.
Il commissario Triolet diede nell’uscio due colpi più energici. Una voce assonnata rispose:
— Che c’è? Dormo, perché mi disturbate?
— Aprite!
La voce della donna giungeva assai confusa attraverso il doppio uscio.
— Non ricevo nessuno! Lasciatemi in pace.
Il Commissario si volse al direttore dell’albergo:
— La stanza ha un’altra uscita?
— No, nessuna altra uscita.
Allora il Commissario diede nell’uscio un altro colpo assai più lento, e pronunziò la formula magica:
— Aprite, in nome della legge!
Di nuovo un prolungato silenzio. Ma s’intese un leggero tintinno, come d’un bicchiere che urtasse la caraffa posta sul tavolino da notte.
Il Commissario guardò monsieur Danzac, e questi guardò lui, forse pensando simultaneamente che la donna avesse trangugiato qualche veleno, oppure avesse afferrata rapidamente una rivoltella per ricevere i rappresentanti della Legge.
— Se non aprite butteremo giù la porta, — disse con visibile nervosità il commissario Triolet.
La voce della donna, più vicina all’uscio, rispose:
— Un istante, apro.
E s’intese il piccolo catenaccio di sicurezza scorrere nel suo congegno, che produsse un colpo secco.
La Polizia irruppe nella stanza illuminata.
La bella donna, sorpresa nel sonno e balzata dalle coltri del tutto nuda, stava tornando verso il letto, su l’orlo del quale, prima appoggiò una mano, poi sedette.
I suoi capelli scompigliati le cadevano con disordine su gli occhi.
II primo gesto che fece fu di aggiustarsi i capelli, poi guardò quegli uomini con uno sguardo obliquo, pieno di lampeggiante furore.
Monsieur Danzac si teneva discretamente in disparte.
Con i palmi delle mani lunghe e scure Mata Hari si strofinò gli occhi. Poi diede una scrollata ai suoi capelli, che in parte le liberarono la fronte. La sua schiena, percossa dal fulgore della lampadina elettrica mandava una specie di raggiera.
Interamente nuda, scolpita nella perfezione delle sue forme, un pò curva su la piegata potenza del grembo, con i suoi affusolati stinchi di danzatrice in cui pareva luccicasse tutta la nervosità del suo corpo violentemente immobile, Mata Hari guardava la Legge della terra nemica, fissava quegli uomini armati dal terribile potere della vendetta, che venivano in tre per impadronirsi di una donna senza veste e senz’anima.
Li fissò con un disprezzo così profondo, che il suo sguardo fece per un istante abbassare gli occhi dell’impassibile commissario Triolet, poi gonfiò di respiro le sue levigate costole appena tralucenti, e sollevando le mani alle tempie, in modo che le sue scure ascelle si scoprirono, trasse dalla buia profondità del suo grembo sussultante un riso che ruppe il silenzio della stanza come una frantumata pioggia di cristalli.
Femmina sino in fondo all’anima, benché sapesse che non c’era più scampo, si piegò sino a toccare con l’apice dei seni la punta dei ginocchi, poi, divaricando sconciamente le cosce per denudare il suo grembo folto e carnoso, che pareva quasi umido, buttò in aria le gambe una dopo l’altra, con elasticità acrobatica, ricadde orizzontalmente nel letto, e senza ricondurre sopra di sé la coltre vi rimase in tutta la sua nudità, ferma e supina.
Quei tre uomini, sebbene avvezzi alle più strane attitudini che la delinquenza comune o la delinquenza eccezionale assumevano di fronte al loro intervento, allibirono di tanta insolenza. Essi non erano preparati ad entrare nella camera di una donna, che forse per segnare un feroce scherno al potere della Legge li accoglieva senz’alcun velo sopra il suo corpo inverecondo, e sdegnava di ricoprirsi anche nel modo più sommario, come avrebbe fatto qualsiasi altra donna colta in simili circostanze, prima di aprire l’uscio alle intimazioni del Commissario.

Triolet nel suo rapporto sull’episodio scrisse che l’unica cosa che aveva colpito la sua fantasia era lo splendido anello che la donna portava al dito.

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