Il Rubino di Mata
Hari di Owen J. David
Presentazione
Una sera durante un party
viene rubato il rubino di Mata Hari dato in prestito da Riccardo Sicardo alla
bella Roberta Marano. Nell’Italia fascista del 1934 l’investigatore privato
Nardini svolge le sue indagini per dipanare quello che sembra un caso
irrisolvibile. Il finale sarà per i lettori una vera sorpresa.
Giallo atipico, abbiamo il
morto ma su questo non indaga nessuno. E’ il furto quello che interessa e su
cui ruotano le avventure di donne belle ed affascinanti.
Incipit
Il
giorno in cui avvenne l’arresto della danzatrice Mata Hari, Parigi visse una
delle sue grandi giornate. La guerra, che pure aveva abituato gli animi a tutti
i colpi di scena, registrava pochi avvenimenti di ordine politico e mondano che
potessero sollevare un’impressione più sensazionale, dalle anticamere
dell’Eliseo ai grigi e fumosi cantieri della «banlieue» parigina.
Il
nome della baiadera indiana risuonava nei discorsi di tutti. Ognuno immaginava
il suo corpo oscuro e fulvo, bruciato dal fulgore dei brillanti, consacrato
agli amori dei ministri e dei principi, ora disteso con la sua lunga dolosità
felina sul duro assito del carcere di St. Lazare.
Per
ricordare un simile trambusto, un uguale turbamento della fantasia popolare,
bisognerebbe risalire con la memoria al giorno dell’arresto di madame Marguerite
Jeanne Steinheil, famosa per aver avvelenato Félix Faure per conto del
sindacato ebraico.
Nelle
prime ore del mattino, un drappello di Polizia guidato dal commissario Triolet
— funzionario che già più volte aveva condotti a buon termine incarichi delicati
e missioni di fiducia — entrò improvvisamente all’hotel Alhambra, senz’alcun
apparato di forza, nè visibile nè dissimulato. Mentre una coppia di agenti in
borghese rimaneva presso l’entrata, e l’altra si avvicinava ad un tavolino per
sfogliarvi macchinalmente una rivista, il commissario Triolet, rivoltosi al
«bureau», chiese di parlare al gerente dell’albergo.
Un
portiere, di quelli ancor troppo inesperti per riconoscere con un’occhiata gli
uomini della Polizia, si mise a contemplare sorridendo le sfere d’una pendola,
e con un garbo ironico, nel quale si tradiva tutto il suo disprezzo per quel
visitatore ingenuo il quale supponeva che il direttore di un albergo elegante
fosse già levato a quelle ore del mattino, rispose al commissario Triolet:
—
Vogliate tornare verso le dieci. Solo allora il nostro direttore potrà
ricevervi.
Monsieur
Triolet, con uno di quei gesti risoluti e brevi degli uomini avvezzi a parare
tutte le fughe, allungò sotto il naso del faceto portiere la sua tessera di
Commissario speciale, che spense come d’incanto il serafico sorriso aleggiante
su le labbra del giovine malaccorto.
Questi
si precipitò al telefono, e pochi minuti dopo monsieur Danzac, balzato dal
letto in fretta e furia, scendeva a ricevere il Commissario, con il quale non
ebbe che un breve scambio di parole, pronunziate a bassa voce. Poi,
accompagnati da una coppia d’agenti e seguiti a distanza dagli altri due,
salirono nel corridoio dov’era la camera della sedicente contessa Mac Léod.
Il
Commissario, decisamente, battè con le nocche due colpi all’uscio.
Nessuno
rispose.
Un
gruppo di camerieri, di facchini e di cameriere dell’albergo, messi in allarme
da quella novità mattutina, incominciavano a raggrupparsi, bisbigliando, in
fondo al corridoio.
—
Andate via! — fece monsieur Danzac con un gesto autoritario. — Non avete altro
da fare.
E il
gruppo si sparpagliò rapidamente, salvo riformarsi poco dopo.
Il
commissario Triolet diede nell’uscio due colpi più energici. Una voce assonnata
rispose:
— Che
c’è? Dormo, perché mi disturbate?
—
Aprite!
La
voce della donna giungeva assai confusa attraverso il doppio uscio.
— Non
ricevo nessuno! Lasciatemi in pace.
Il
Commissario si volse al direttore dell’albergo:
— La
stanza ha un’altra uscita?
— No,
nessuna altra uscita.
Allora
il Commissario diede nell’uscio un altro colpo assai più lento, e pronunziò la
formula magica:
—
Aprite, in nome della legge!
Di
nuovo un prolungato silenzio. Ma s’intese un leggero tintinno, come d’un
bicchiere che urtasse la caraffa posta sul tavolino da notte.
Il
Commissario guardò monsieur Danzac, e questi guardò lui, forse pensando
simultaneamente che la donna avesse trangugiato qualche veleno, oppure avesse
afferrata rapidamente una rivoltella per ricevere i rappresentanti della Legge.
— Se
non aprite butteremo giù la porta, — disse con visibile nervosità il
commissario Triolet.
La
voce della donna, più vicina all’uscio, rispose:
— Un
istante, apro.
E
s’intese il piccolo catenaccio di sicurezza scorrere nel suo congegno, che
produsse un colpo secco.
La
Polizia irruppe nella stanza illuminata.
La
bella donna, sorpresa nel sonno e balzata dalle coltri del tutto nuda, stava
tornando verso il letto, su l’orlo del quale, prima appoggiò una mano, poi
sedette.
I
suoi capelli scompigliati le cadevano con disordine su gli occhi.
II
primo gesto che fece fu di aggiustarsi i capelli, poi guardò quegli uomini con
uno sguardo obliquo, pieno di lampeggiante furore.
Monsieur
Danzac si teneva discretamente in disparte.
Con i
palmi delle mani lunghe e scure Mata Hari si strofinò gli occhi. Poi diede una
scrollata ai suoi capelli, che in parte le liberarono la fronte. La sua
schiena, percossa dal fulgore della lampadina elettrica mandava una specie di
raggiera.
Interamente
nuda, scolpita nella perfezione delle sue forme, un pò curva su la piegata
potenza del grembo, con i suoi affusolati stinchi di danzatrice in cui pareva
luccicasse tutta la nervosità del suo corpo violentemente immobile, Mata Hari
guardava la Legge della terra nemica, fissava quegli uomini armati dal
terribile potere della vendetta, che venivano in tre per impadronirsi di una
donna senza veste e senz’anima.
Li
fissò con un disprezzo così profondo, che il suo sguardo fece per un istante
abbassare gli occhi dell’impassibile commissario Triolet, poi gonfiò di respiro
le sue levigate costole appena tralucenti, e sollevando le mani alle tempie, in
modo che le sue scure ascelle si scoprirono, trasse dalla buia profondità del
suo grembo sussultante un riso che ruppe il silenzio della stanza come una
frantumata pioggia di cristalli.
Femmina
sino in fondo all’anima, benché sapesse che non c’era più scampo, si piegò sino
a toccare con l’apice dei seni la punta dei ginocchi, poi, divaricando
sconciamente le cosce per denudare il suo grembo folto e carnoso, che pareva
quasi umido, buttò in aria le gambe una dopo l’altra, con elasticità
acrobatica, ricadde orizzontalmente nel letto, e senza ricondurre sopra di sé
la coltre vi rimase in tutta la sua nudità, ferma e supina.
Quei
tre uomini, sebbene avvezzi alle più strane attitudini che la delinquenza
comune o la delinquenza eccezionale assumevano di fronte al loro intervento,
allibirono di tanta insolenza. Essi non erano preparati ad entrare nella camera
di una donna, che forse per segnare un feroce scherno al potere della Legge li
accoglieva senz’alcun velo sopra il suo corpo inverecondo, e sdegnava di
ricoprirsi anche nel modo più sommario, come avrebbe fatto qualsiasi altra
donna colta in simili circostanze, prima di aprire l’uscio alle intimazioni del
Commissario.
Triolet
nel suo rapporto sull’episodio scrisse che l’unica cosa che aveva colpito la
sua fantasia era lo splendido anello che la donna portava al dito.
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