lunedì 11 aprile 2016

Follia



Follia di Arnoldo Golvorthi

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Presentazione
La nobile Elisa Batoni viene trovata morta sulla terrazza del suo castello. Per l’ispettore Riondino comincia una delicata e difficile indagine che dovrà portare a galla non pochi segreti. Tra questi: che significato ha uno splendido gioiello a forma di vipera ripiegata, con la testa d'aquila, tutto d'oro, con smalto policromo lungo i lati, chiamato il simbolo del diritto di vita e di morte? Quale mistero racchiude uno spaventoso antro in cui una giovane ragazza viene torturata a morte? Perché Aurora Batoni e Corrado Batoni conducono una vita così ritirata da non voler avere nessun contatto con la società?
Nel piccolo paesino di Vimodrone, alle porte di Milano, si dipana una storia di morte e di mistero che riserverà molte sorprese ai lettori.
Incipit
La sera del due luglio dell’anno 1394, Milano esultante acclamava il nome di Gian Galeazzo Visconti e i nomi di Orlando e di Elena. Orlando era il giovane figlio del Capitano delle Guardie, ed Elena, fiore di bellezza, orgoglio di Milano, l’ultima erede dell’illustre casa dei Vimodrone.
I nomi di Orlando e di Elena, che la folla ripeteva con giubilo, erano quelli di due fidanzati illustri, che, all’indomani, Milano avrebbe visto andare nella sede del Palazzo Ducale, per il loro fidanzamento ufficiale.
Dall’alto di un’altana, due uomini si chinavano a guardare lo spettacolo di Milano festante.
II più alto e il più fiero dei due tese il pugno minaccioso verso la folla.
— Ascolta: odi i nomi che gridano?
— Li odo — rispose l’altro. — E confesso che quei due nomi mi sembrano molto bene accoppiati.
— Che dici mai?
— Domani essi saranno fidanzati! Tra otto giorni si sposeranno! È una magnifica unione, messere.
— Piuttosto di vedere compiere questo matrimonio, ti giuro che li pugnalerei con le mie mani.
— Odiate così tanto Orlando, uno dei vostri più cari amici?
— Odio lui, quanto amo lei! Oh, Elena, Elena! Perchè ti ho veduta? Maledetto sia il mio destino!
Il più potente fra i patrizi di Milano, il crudele capitano Facino che, quando passava per le stradi faceva intorno a sè il silenzio, si prese la testa fra le mani e pianse come un fanciullo.
Il suo compagno, sorridendo con disprezzo, lo guardava silenzioso. Ad un tratto disse:
— Venite, messere.
— Che vuoi? — chiese Facino.
L’uomo non rispose. Afferrò il capitano per un braccio e lo trasse all’altra estremità dell’altana.
— Guardate!
Nel fondo di quell’angolo di Milano, appariva uno stretto canale, il Ticinello. Su di esso brillava un ponte, nel magnifico tramonto, che collegava il palazzo Ducale con le terribili prigioni di Milano.
— Il Ponte! — mormorò Facino.
— Il Ponte della Morte! — ribattè l’uomo con voce fredda. — Chi passa di là dice addio alla speranza.
— Un pretesto! — balbettò Facino dopo un lungo silenzio. — Un pretesto per farlo arrestare...
— Un pretesto? — chiese l’uomo con lieve accento di scherno. — Venite, venite, messere...
E lo trasse a un altro lato dell’altana.
— Guardate, laggiù! — disse.
E gli indicò un palazzo che sorgeva poco dopo il ponte.
— Il palazzo di Eleonora, la cortigiana! — mormorò Facino.
— Sì — disse l’uomo afferrandogli una mano, — in quel palazzo voi potete trovare il pretesto per vendicarvi di Orlando.
— Essa lo odia? — chiese Facino.
— Lo ama, lo ama come voi amate Elena, e come Elena ama Orlando, sino alla follia, sino alla morte! E stasera Eleonora, la cortigiana, è la più disperata delle donne: il suo amore, violento e implacabile come il vostro, sta portando a termine la sua vendetta.
In quello stesso momento, mentre il sole stava per scomparire dietro le altissime cime degli alberi, fra un mare di fuoco che arrossava le acque dei navigli, facendole sembrare bronzo appena fuso, mentre a levante un vapore violaceo, che diventava di momento in momento più fosco, annunciava le prime tenebre, un uomo stava ritto su un imbarcadero, appoggiato al fusto d'una giovane palma, in una specie di molle abbandono e come immerso in profondi pensieri. Il suo sguardo vago errava sulle acque che si frangevano con un dolce gorgoglìo contro le barche ormeggiate.
Era un bel giovane, forse appena diciottenne, con spalle piuttosto larghe e piene, le braccia nervose, terminanti in mani lunghe e sottili, i lineamenti bellissimi, regolari, ed i capelli e gli occhi nerissimi.
Quel giovane conservava una immobilità assoluta e sembrava che non si accorgesse nemmeno che le prime ombre della notte cominciavano ad avvolgere gli alberi ed il fiume, e che non pensasse nemmeno che il soffermarsi in quel luogo, dopo il tramonto, poteva essere pericoloso.
Il suo sguardo nerissimo, dal lampo fosco, si fissava sempre nel vuoto come se seguisse qualche cosa che gli fuggiva dinanzi e che scompariva fra le ombre della notte.
Ad un tratto un lungo sospiro gli uscì dalle labbra, poi si scosse facendo con le mani come un moto di scoraggiamento. Il giorno seguente si sarebbe dovuto fidanzare con la bella e ricca marchesa di Vimodrone, così gli aveva imposto suo padre, così voleva il suo principe. Lui, non poteva che ubbidire, ma i suoi pensieri erano per un’altra.
— Non la vedrò mai più!
Alzò gli occhi. Le stelle cominciavano a brillare in cielo e il lieve rossore purpureo che si discerneva ancora vagamente verso ponente, là dove il sole era scomparso, si dileguava con fantastica rapidità.
— Torniamo, — mormorò il giovane. — Mio padre sarà molto inquieto e forse sta cercandomi.
Aveva fatto tre o quattro passi, quando si arrestò, fissando lo sguardo su una barca. Qualche cosa scintillava sulla sua chiglia. Incuriosito, si chinò rapidamente e la raccolse, mandando nel medesimo tempo un grido a malapena soffocato.
Era uno splendido gioiello in forma di vipera ripiegata, con la testa d'aquila, tutto d'oro, con smalto policromo lungo i lati.
— Il simbolo del diritto di vita e di morte! — esclamò.
Stette parecchi minuti come perplesso, tenendo gli occhi sempre fissi su quello strano monile, mentre la pelle del suo viso, che era solitamente abbronzata, a poco a poco si scoloriva.
— Sì, — ripetè, con un accento che tradiva una profonda angoscia, — questo è il simbolo del diritto di vita e di morte. Perché ho dovuto trovarlo proprio io.
Egli conosceva molto bene la leggenda che accompagnava quello strano gioiello, dal valore inestimabile, ma maledetto per chi ne veniva in possesso. Era visto come un potente simbolo mistico, significante dell'esistenza e dell'universo, unione dei principi cosmici primordiali. Stava ad indicare la reincarnazione, ma dopo una morte violenta.
Si passò più volte una mano sulla fronte che era bagnata di sudore, poi riprese:
— Me lo ricordo, questo gioiello brillava in mezzo ai capelli di Eleonora, la cortigiana.
Un'angoscia inesprimibile traspariva sul bel viso del giovane. Aveva ripreso il cammino, con la testa bassa, le braccia penzolanti. Le tenebre avevano tutto avvolto e l'oscurità era profonda per le strade di Milano.
Era calato un insolito silenzio, rotto solo dal sussurrare dolce delle fronde, scosse da un leggero venticello. Il giovane pareva che nulla udisse, camminava come un sonnambulo, come se sognasse, senza parlare.
Aveva già raggiunto il ponte, quando una voce lo strappò improvvisamente dai suoi pensieri.
— Orlando!

Il giovane si arrestò e aprì gli occhi. L’ultima cosa che vide fu lo scintillio di una lama che gli penetrava in gola.

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