Follia di Arnoldo
Golvorthi
Presentazione
La nobile Elisa Batoni viene trovata morta sulla terrazza
del suo castello. Per l’ispettore Riondino comincia una delicata e difficile
indagine che dovrà portare a galla non pochi segreti. Tra questi: che
significato ha uno splendido gioiello a forma di vipera ripiegata, con la testa
d'aquila, tutto d'oro, con smalto policromo lungo i lati, chiamato il simbolo
del diritto di vita e di morte? Quale mistero racchiude uno spaventoso antro in
cui una giovane ragazza viene torturata a morte? Perché Aurora Batoni e Corrado
Batoni conducono una vita così ritirata da non voler avere nessun contatto con
la società?
Nel piccolo paesino di Vimodrone, alle porte di Milano, si
dipana una storia di morte e di mistero che riserverà molte sorprese ai
lettori.
Incipit
La sera del due luglio dell’anno 1394, Milano esultante
acclamava il nome di Gian Galeazzo Visconti e i nomi di Orlando e di Elena.
Orlando era il giovane figlio del Capitano delle Guardie, ed Elena, fiore di
bellezza, orgoglio di Milano, l’ultima erede dell’illustre casa dei Vimodrone.
I nomi di Orlando e di Elena, che la folla ripeteva con
giubilo, erano quelli di due fidanzati illustri, che, all’indomani, Milano
avrebbe visto andare nella sede del Palazzo Ducale, per il loro fidanzamento
ufficiale.
Dall’alto di un’altana, due uomini si chinavano a guardare
lo spettacolo di Milano festante.
II più alto e il più fiero dei due tese il pugno minaccioso
verso la folla.
— Ascolta: odi i nomi che gridano?
— Li odo — rispose l’altro. — E confesso che quei due nomi
mi sembrano molto bene accoppiati.
— Che dici mai?
— Domani essi saranno fidanzati! Tra otto giorni si
sposeranno! È una magnifica unione, messere.
— Piuttosto di vedere compiere questo matrimonio, ti giuro
che li pugnalerei con le mie mani.
— Odiate così tanto Orlando, uno dei vostri più cari amici?
— Odio lui, quanto amo lei! Oh, Elena, Elena! Perchè ti ho
veduta? Maledetto sia il mio destino!
Il più potente fra i patrizi di Milano, il crudele capitano
Facino che, quando passava per le stradi faceva intorno a sè il silenzio, si
prese la testa fra le mani e pianse come un fanciullo.
Il suo compagno, sorridendo con disprezzo, lo guardava
silenzioso. Ad un tratto disse:
— Venite, messere.
— Che vuoi? — chiese Facino.
L’uomo non rispose. Afferrò il capitano per un braccio e lo
trasse all’altra estremità dell’altana.
— Guardate!
Nel fondo di quell’angolo di Milano, appariva uno stretto
canale, il Ticinello. Su di esso brillava un ponte, nel magnifico tramonto, che
collegava il palazzo Ducale con le terribili prigioni di Milano.
— Il Ponte! — mormorò Facino.
— Il Ponte della Morte! — ribattè l’uomo con voce fredda. —
Chi passa di là dice addio alla speranza.
— Un pretesto! — balbettò Facino dopo un lungo silenzio. —
Un pretesto per farlo arrestare...
— Un pretesto? — chiese l’uomo con lieve accento di scherno.
— Venite, venite, messere...
E lo trasse a un altro lato dell’altana.
— Guardate, laggiù! — disse.
E gli indicò un palazzo che sorgeva poco dopo il ponte.
— Il palazzo di Eleonora, la cortigiana! — mormorò Facino.
— Sì — disse l’uomo afferrandogli una mano, — in quel
palazzo voi potete trovare il pretesto per vendicarvi di Orlando.
— Essa lo odia? — chiese Facino.
— Lo ama, lo ama come voi amate Elena, e come Elena ama
Orlando, sino alla follia, sino alla morte! E stasera Eleonora, la cortigiana,
è la più disperata delle donne: il suo amore, violento e implacabile come il
vostro, sta portando a termine la sua vendetta.
In quello stesso momento, mentre il sole stava per
scomparire dietro le altissime cime degli alberi, fra un mare di fuoco che
arrossava le acque dei navigli, facendole sembrare bronzo appena fuso, mentre a
levante un vapore violaceo, che diventava di momento in momento più fosco,
annunciava le prime tenebre, un uomo stava ritto su un imbarcadero, appoggiato
al fusto d'una giovane palma, in una specie di molle abbandono e come immerso
in profondi pensieri. Il suo sguardo vago errava sulle acque che si frangevano
con un dolce gorgoglìo contro le barche ormeggiate.
Era un bel giovane, forse appena diciottenne, con spalle
piuttosto larghe e piene, le braccia nervose, terminanti in mani lunghe e
sottili, i lineamenti bellissimi, regolari, ed i capelli e gli occhi nerissimi.
Quel giovane conservava una immobilità assoluta e sembrava
che non si accorgesse nemmeno che le prime ombre della notte cominciavano ad
avvolgere gli alberi ed il fiume, e che non pensasse nemmeno che il soffermarsi
in quel luogo, dopo il tramonto, poteva essere pericoloso.
Il suo sguardo nerissimo, dal lampo fosco, si fissava sempre
nel vuoto come se seguisse qualche cosa che gli fuggiva dinanzi e che
scompariva fra le ombre della notte.
Ad un tratto un lungo sospiro gli uscì dalle labbra, poi si
scosse facendo con le mani come un moto di scoraggiamento. Il giorno seguente
si sarebbe dovuto fidanzare con la bella e ricca marchesa di Vimodrone, così
gli aveva imposto suo padre, così voleva il suo principe. Lui, non poteva che
ubbidire, ma i suoi pensieri erano per un’altra.
— Non la vedrò mai più!
Alzò gli occhi. Le stelle cominciavano a brillare in cielo e
il lieve rossore purpureo che si discerneva ancora vagamente verso ponente, là
dove il sole era scomparso, si dileguava con fantastica rapidità.
— Torniamo, — mormorò il giovane. — Mio padre sarà molto
inquieto e forse sta cercandomi.
Aveva fatto tre o quattro passi, quando si arrestò, fissando
lo sguardo su una barca. Qualche cosa scintillava sulla sua chiglia.
Incuriosito, si chinò rapidamente e la raccolse, mandando nel medesimo tempo un
grido a malapena soffocato.
Era uno splendido gioiello in forma di vipera ripiegata, con
la testa d'aquila, tutto d'oro, con smalto policromo lungo i lati.
— Il simbolo del diritto di vita e di morte! — esclamò.
Stette parecchi minuti come perplesso, tenendo gli occhi
sempre fissi su quello strano monile, mentre la pelle del suo viso, che era solitamente
abbronzata, a poco a poco si scoloriva.
— Sì, — ripetè, con un accento che tradiva una profonda
angoscia, — questo è il simbolo del diritto di vita e di morte. Perché ho
dovuto trovarlo proprio io.
Egli conosceva molto bene la leggenda che accompagnava
quello strano gioiello, dal valore inestimabile, ma maledetto per chi ne veniva
in possesso. Era visto come un potente simbolo mistico, significante
dell'esistenza e dell'universo, unione dei principi cosmici primordiali. Stava
ad indicare la reincarnazione, ma dopo una morte violenta.
Si passò più volte una mano sulla fronte che era bagnata di
sudore, poi riprese:
— Me lo ricordo, questo gioiello brillava in mezzo ai
capelli di Eleonora, la cortigiana.
Un'angoscia inesprimibile traspariva sul bel viso del
giovane. Aveva ripreso il cammino, con la testa bassa, le braccia penzolanti.
Le tenebre avevano tutto avvolto e l'oscurità era profonda per le strade di
Milano.
Era calato un insolito silenzio, rotto solo dal sussurrare
dolce delle fronde, scosse da un leggero venticello. Il giovane pareva che
nulla udisse, camminava come un sonnambulo, come se sognasse, senza parlare.
Aveva già raggiunto il ponte, quando una voce lo strappò
improvvisamente dai suoi pensieri.
— Orlando!
Il giovane si arrestò e aprì gli occhi. L’ultima cosa che
vide fu lo scintillio di una lama che gli penetrava in gola.
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