Il Mistero della
Statuetta Indiana di Cristiano Lys
Presentazione
Un romanzo alla Charles Dickens con in più un pizzico di
mistero alla Sherlock Holmes. In una Londra di fine ottocento, nei bassifondi
di Whitechapel (famoso per Jack Lo Squartatore) si dipana una storia d’amore,
di miseria e nobiltà e di un mistero che avvolge una statuetta indiana.
Incipit
Il
dottore stava seduto davanti a un fuoco a metà spento, su un vecchio e
massiccio seggiolone. Accanto a lui, su un tavolo, stava una lampada coperta da
un paralume — l'unica illuminazione della stanza. Tratto tratto un'ondata di
fumo usciva, dalla sua grossa pipa, mentre egli stava tutto assorto nella
lettura di un'opera di recente pubblicazione sulle malattie mentali.
Gli
si scorgeva nel viso e nello sguardo un profondo interesse. Di tanto, in tanto,
esclamava forte:
«No, no, non vi è nulla che lo provi».
«E' una illusione».
«Sì, è giusto, lo sperimentai, anche io».
Improvvisamente
guardò alle pesanti tende che stavano davanti alla finestra. Le fissò un
momento come se si aspettasse di vedere qualcuno. Un brivido correva lungo la
stoffa, come se venisse scossa da una mano invisibile.
— La finestra non chiude bene, — disse il
dottore a mezza voce. — Domani la farò
aggiustare.
Poi
tornò al suo lavoro. Strano, non gli riusciva più di concentrarsi come prima.
Cambiò posizione alla lampada perchè gettava un'ombra. Non poteva reggere in
mano il libro, perchè troppo pesante e se l'appoggiò alle ginocchia, curvandosi
per poter leggere, ma la testa faceva riparo alla luce, onde spostò un'altra
volta la lampada per sfuggire l'ombra.
Intanto
il cuscino del seggiolone era caduto in terra ed egli non trovava più una buona
posizione. Chiuse con un atto di impazienza il libro e fissò di nuovo la
finestra. Quale fu la sua sorpresa! Dalle tende usciva fuori una grossa testa,
dalla carnagione nerissima, con due occhi che lo guardavano fisso. La bocca
semi aperta lasciava scorgere una fila di denti bianchissimi. L'espressione del
viso era stupida.
— Che fate qui? — chiese il dottore, dopo
un momento, riavutosi dalla sorpresa, e dopo essersi munito di un lungo
coltello che pendeva accanto al fuoco. Intanto la tendina si era alzata, ed un
uomo entrava nella stanza.
Aveva
in capo un turbante, i suoi piedi, apparentemente senza calze, portavano delle
vecchie scarpe troppo larghe; un palo di calzoni corti, logori e tutti toppe,
una specie di camiciotto bianco come sogliono portare i pittori, una camicia di
flanella abbottonata stretta intorno al collo, senza cravatta, formavano il suo
abbigliamento. Egli era molto alto: aveva le braccia e le gambe lunghissime; le
prime gli giungevano fino alle ginocchia. La testa era straordinariamente
grossa.
— Come avete fatto a venir qui? — chiese
il dottore alzandosi dal seggiolone, pronto ad un attacco.
Nulla
pareva più lontano dal suo pensiero quanto un attacco. Gli fece un profondo
inchino.
— Entrai qui dalla porta, mentre il Sahib era
fuori, — disse in un buonissimo inglese.
— Per quale motivo?
L'uomo
segnò col dito le tendine, dalle cui pieghe era uscito fuori.
— Per nascondermi...
— E perchè volevate nascondervi là?
— Perchè il Sahib ha un brutto coltello? Io
non sono un nemico. Sono un amico.
— Perchè volevate nascondervi là dentro? —
gli ripetè un'altra volta il dottore additandogli le tende senza però mai
lasciare il coltello.
— Perchè avevo sentito dire che il dottor
Kingsford è un uomo buono e generoso, benedetto dai poveri come un inviato di
Brahma: che consiglia e conforta gli infelici aiuta gli stranieri, guarisce gli
ammalati. Non ho mai incontrato un uomo che assomigli a lui, in questo strano
paese. E volli venire a vedere questo dottore per consultarlo.
— Siete ammalato?
— No, sono uno straniero e vorrei domandare
aiuto e consiglio al buon dottore.
Egli
aveva un'aria tanto inoffensiva, che il dottore posò il coltello.
— Ora, amico mio, ditemi la ragione per cui vi
nascondeste colà invece di entrare per la porta.
L'individuo
alzò una delle sue lunghe braccia, piegò il capo da un lato, come se la domanda
non richiedesse una risposta.
— Se fossi entrato dalla porta di casa, mi
avrebbero detto: Andatevene, il buon dottore ha da fare. Usai dunque questo
stratagemma perchè altrimenti non sarei riuscito a vedere il buon dottore.
Kingsford
sorrideva.
— Sapete che vi sono di quelli che sarebbero
andati su tutte le furie dinanzi a un fatto simile? — disse.
— Lo so, ma il dottore no, certo. Ho sentito
parlare del dottore...
— Bene, ora che mi avete visto, ditemi quello
che volete — disse Kingsford, ansioso di toglierselo dai piedi.
— Un consiglio! — fu la strana risposta.
— Questo è presto dato: non andate in giro
nelle camere altrui, come avete fatto con me.
— Via, non siate in collera con me.
La
sua voce era tanto supplichevole, mentre stendeva le sue lunghe braccia in atto
di preghiera verso il dottore.
— Sono straniero in un paese che non conosco.
Qui mi trovo così diverso dagli altri! Quando vado in giro a cercare qualcosa
per mangiare, mi ridono dietro perchè non assomiglio a loro! Quando cammino i
monelli mi corrono dietro schernendomi. Quando domando: Datemi del lavoro, sono
un buon lavoratore e vi domando poco compenso, il padrone mi scaccia e gli
altri mi ingiuriano.
Il
dottore non rispondeva.
— Eppure posso giurare che sono un inglese
come gli altri, tranne che nel viso. Il viso è hindù.
Il
dottore rise forte, per l'idea che si faceva l’hindù dell'inglese.
— Che posso io fare, per voi? — gli
chiese.
— Il buon dottore mi aiuterà. Egli è solo.
Quando il povero viene a trovarlo va egli stesso ad aprire, e gli dice:
Entrate. Il dottore è solo, in mezzo a tutte queste cose — e si guardava
attorno, — e tutte queste cose hanno
bisogno di cura. Il dottore sporca ed ha bisogno di qualcuno che tenga pulito.
Io voglio vivere col buon dottore. Ram Khan è un buon servitore. Egli avrà cura
di tutto e del dottore.
Tacque
guardando ansiosamente Kingsford, aspettando la sua risposta.
— Amico mio, io non ho punto bisogno di un
servitore.
— Sì, dottore, voi ne avete bisogno, molto
bisogno. Guardate qui che polvere!
E
passò la mano su uno scaffale vicino al fuoco, ridendo del segno lasciato.
— Ma io pure sono povero.
— Così mi dissero. Ma il buon dottore è ricco
qui, — e si pose la mano sulla testa. — Egli
sa tutto. Tutti i mali scompaiono appena li vede! Egli è ricco qui, — e si
pose la mano sul cuore. — Ram Khan lo sa.
I bambini sorridono quando lo incontrano per via e gli uomini s'inchinano
profondamente. Ram Khan sarà ricco pure lui, perchè il buon dottore è suo amico.
Kingsford
non sapeva cosa dire.
— Dove dormite stanotte?
— Qui, — rispose l'hindù prontamente.
Al
dottore non sorrideva punto quell'idea.
— No, non stanotte. Devo prima pensarci.
Tornate domani.
— Domani?
— Sì.
— Grazie mille, dottore, grazie mille.
— E un'altra volta non nascondetevi più.
— No, feci questo prima che il buon dottore
fosse mio amico.
Kingsford
tirò indietro la pesante tenda che stava davanti alla porta.
— Buona notte.
— Domani.
— Sì, domani!
Il
dottore rimase sull'uscio finchè l’hindù ebbe disceso l'angusta scaletta della
vecchia casa e fu sulla via, poi chiuse la porta e tirò il chiavistello.
— Ecco un'avventura — mormorò. — Una strana avventura. E così, domani, Ram
Khan sarà il mio servitore, eh!
Attizzò
il fuoco, alzò la luce alla lampada, lanciò il giornale attraverso la stanza su
una statuetta che rappresentava un bambinetto seduto su un trono, posata su un
piedestallo nell'angolo opposto, urtando il piccolo berrettino di seta nera che
il dottore, alle volte, metteva nel fare certi esperimenti e che egli aveva
posato di traverso sulla testa di quell'immagine, dandole un'espressione di grande
comicità malinconica.
Il
dottore guardò l'orologio.
— Le dieci... Bisogna che io vada dalla
signora Berry. Poveretta! Essa non vivrà molto a lungo, ho una gran paura!
Si
pose il cappello in testa, un pesante pastrano sulle spalle, abbassò la luce
della lampada e dopo aver puntato un cartellino sulla porta esterna di casa col
quale avvertiva che fra una mezz'oretta sarebbe stato di ritorno, e che
qualsiasi avviso venisse messo nella cassetta delle lettere, scese le scale e
si trovò in mezzo alla nebbia.
Maurizio
Kingsford, dottore in medicina, in Londra, aveva dovuto sempre lottare nella
vita. Glielo si vedeva nella persona, che dimostrava più anni di quanti ne
avesse, poiché in realtà non aveva più di trentacinque anni, nella sua
conversazione, che aveva un non so che di amaro e di cinico, e nel suo
carattere corazzato a tutte le vicissitudini e, per così dire, d'un pezzo solo.
Suo
padre, pastore anglicano, privo di mezzi di fortuna, con uno stipendio
modicissimo, pure, dovendo tenere un certo decoro, aveva sudato sangue per
dargli un'educazione conveniente, ed il figlio, da parte sua, aveva lavorato e
studiato come pochi giovani fanno per alleggerire al padre pene e fatiche.
Quando
il pastore morì improvvisamente, lasciandolo solo al mondo, senza una relazione,
senza un amico e senza un quattrino, egli aveva venti anni. Nessuno s'immagina
quali sacrifici fece per poter continuare i suoi studi.
Abitava
una soffitta: i suoi abiti erano decenti a forza di cure e molte volte
rinunziava al pranzo per potersi comperare un libro. In collegio era
considerato come un originale. Con tutto ciò non lo detestavano, ma evitavano
di stargli insieme, come uno di cui non si capisce il carattere.
Maurizio
Kingsford non domandava di meglio: egli non aveva bisogno di compagnia, bastava
a sè stesso. Fortunatamente egli era dotato di un temperamento di ferro, e la
cattiva nutrizione e l'eccessivo lavoro non indebolirono la sua salute, per cui
con la sua volontà, a tempo debito, prese la laurea.
Ma se
le ansie, le privazioni, le cure d'ogni specie non ebbero influenza sulla sua
salute, lo ebbero però sul suo carattere. Egli pensava e sentiva come un
invecchiato molto prima del tempo.
Della
vita non conosceva che il lato brutto, ed ignorava che ve ne esistesse un
altro. Il destino gli era stato così avverso! Cosa tristissima e
pericolosissima per la gioventù, quando le più lievi cose lasciano una
impressione, quando ogni seme che cade nella nostra mente è pronto a prendere
radice.
Ed i
semi così gettati produssero una strana messe nel carattere di Maurizio
Kingsford. Egli era naturalmente un pensatore. Gli studi gli avevano dato la
facoltà di pensare molto e bene, se non sempre saggiamente.
Era
un uomo probo, onesto, sprezzatore delle azioni meschine, aveva un carattere
calmo e malinconico, affettuoso e saggio, consigliere verso colui che si
rivolgesse a lui. Insomma, era un uomo generoso.
Ma le
cattive erbe erano pure cresciute! Era invidioso, aspro, cinico, diffidente,
non credeva nella scienza se non in quello da lui sperimentato, ed era poco
religioso. Ma egli non faceva pompa delle sue idee, le teneva chiuse in sè e,
forse, desiderava di credere più di quanto glielo concedesse il suo carattere,
ed invidiava quelli che avevano più fede di lui.
Insomma,
per quanto le cose ora gli andassero bene, e riuscisse in ogni cosa, pure la
sua non era una vita che lo contentasse. Egli avrebbe avuto bisogno di un
raggio di sole, di un amico, di qualcuno da poter amare e incoraggiare.
All'epoca
in cui comincia questo racconto, il dottore aveva trentacinque anni, una
struttura solida, non molto alto, ma snello, e i suoi capelli neri cominciavano
a brizzolare sulle tempia. Era completamente sbarbato, aveva degli occhi neri e
vivi. Uno straniero, a prima vista, avrebbe sentito subito simpatia e confidenza
per lui, ma l'uomo o la donna che lo avessero conosciuto meglio, lo avrebbero
difficilmente amato.
Gli
anni gli avevano addolcito il carattere e ne avevano messo in luce i lati
buoni, ma il raggio di sole non era giunto ancora. La gemma esisteva, ma aveva
bisogno di luce e di colore per svilupparsi.
Da
cinque anni egli aveva incominciato a esercitare nell'East End di Londra. Il
lavorare tra i poveri gli piaceva. Sentiva per loro della simpatia ed essi
gliela ricambiavano. Egli aveva vissuto quei cinque anni in un appartamentino
sopra la bottega di un confettiere in West Street Whitechapel.
Il
suo nome era scritto su una targhetta di ottone, fissata sulla porta di casa
che rimaneva sempre aperta perchè il dottore aveva una numerosa clientela. La
casa dove abitava era un vecchio caseggiato mezzo in rovina, in una delle vie
più povere del quartiere, ma appena entrati nel suo appartamento, si rimaneva
sorpresi.
Aveva
tre camere che mettevano in una piccola anticamera la quale aveva un uscio
sulla scala. Una di queste era la sala dei consulti, la sua bottega, come usava
chiamarla; una camera piena di bottiglie, di tubi di medicinali, con degli
odori strani, perchè il dottore era uno sperimentatore.
L'altra
era la sua camera da letto, piccola, ammobiliata del puro necessario. La terza
era quella che abitava, ed era appunto quella che sorprendeva. Era larga e
spaziosa. Alle finestre e alla porta pendevano pesanti tende, un tappeto
soffice copriva il pavimento, un pesante camino in noce e dei ricchi mobili intarsiati
ornavano la stanza.
Ai
muri pendevano delle vecchie stampe di prezzo, unite a strani ma simpatici
paesaggi: vi era uno scheletro con una corona avvolto in una ricca stoffa, e
altri attorno a lui, rivoltanti nella loro orribile realtà.
Armi
d'ogni nazione pendevano in artistici gruppi. Della porcellana cinese stava
esposta in due armadi a vetro. Nella parete opposta alla finestra stavano dei
libri, la maggior parte opere di medicina e opere scientifiche.
Uno
scrittoio coperto più di libri che di carte stava vicino alla finestra. L'arte
e la scienza, la bellezza e la ributtante realtà, erano stranamente riunite in
quella stanza. In un angolo, come già dicemmo, su un piedistallo di marmo stava
una statua.
Era
una figura in legno lavorato con molta arte, seduta, con le mani sulle
ginocchia, la testa china e gli occhi che parevano chiusi. Essa attirava
l'attenzione di chiunque entrasse nella stanza, come di una cosa che non fosse
al suo posto, come se essa dovesse arrossire di non trovarsi in un tempio.
Tuttavia
essa aveva una espressione sinistra. Si sarebbe detto che essa dovesse alzare
improvvisamente gli occhi e fissarvi in viso. Questa stanza era il paradiso di
Maurizio Kingsford.
Povero
come era, egli aveva fatto di tutto per dare una impronta di ricchezza a quel
luogo a lui caro, privandosi spesse volte delle cose più necessarie alla vita,
per raggiungere questa sua idea.
Giunto
nella strada, Kingsford si abbottonò ben bene il pastrano, mentre attraversava
West Street, poiché la notte era umida e nebbiosa. Svoltò in un vicoletto e si
diresse verso un enorme edificio chiamato Black's Building, dove abitava la sua
ammalata, la signora Berry.
La
trovò molto debole. Un sorriso di soddisfazione le illuminò il viso quando vide
entrare il dottore. Egli si fermò un po' benché sapesse perfettamente che non
ci fosse più speranza per lei.
Uscito
di là, si avviò di buon passo verso casa sua riflettendo a quanto avrebbe detto
l'indomani al suo strano amico. Egli non aveva per nulla bisogno di un
servitore, ma non sapeva come sbarazzarsi dell'hindù, e in pari tempo non
voleva trattarlo male.
I
suoi pensieri furono interrotti nel passare davanti a un'osteria, sull'angolo
della via. Un fascio di luce partiva dì là, illuminando la via oscura. Si
udivano suoni, canti e risa. Un crocchio di persone stava osservando dietro ad
una porta vetrata e rideva di quanto succedeva là dentro.
Un
uomo ed una donna, ubriachi entrambi attraversavano la sala a sbalzi. In mezzo
a loro un bambino il teneva per mano per aiutarli. Era uno strano spettacolo.
Nonostante
il loro stato d'ebbrezza, avevano tutti e due l'aria di arrossire della loro
condizione e cercavano di camminare il più diritto possibile. Il loro piccolo
guardiano li trascinava con l’aria soddisfatta.
Aveva
una fisionomia bella e interessante benché non avesse ne la freschezza né i
lineamenti dell'infanzia. Il suo abito vecchio e logoro gli pendeva da tutte le
parti e si capiva che era stato fatto per un'altra persona.
Il
dottore si arrestò. Egli li conosceva. Non era la prima volta che vedeva quel
piccolo uomo guidare i suoi genitori a casa. Li aveva conosciuti quando
abitavano Black's Building, dove alloggiava molta della clientela del dottore.
— Buona sera, Polony — disse, mentre gli
passavano accanto.
Il
ragazzo scosse la testa.
— Egli non vi riconosce.
— Succede loro spesso?
— Quasi tutte le sere.
E
continuarono la loro strada andando a sbalzi
Gli
spettatori che stavano sulla strada non li motteggiarono, come si sarebbe
supposto. Avevano purtroppo familiarizzato con quello spettacolo e provavano
pena per il bambino. Il dottore sospirò e si avviò verso casa.
Una
voce accanto a lui disse:
— Quale doloroso spettacolo!
Si
voltò e vide un vecchio a lui sconosciuto, appoggiato ad un bastone che seguiva
con lo sguardo i tre disgraziati. Il dottore non sapeva se l'osservazione del
vecchio fosse rivolta a lui.
— Maledetto il vizio del bere!
— Avete ragione, signore — disse
Kingsford. — Quel bambino trascina quasi
ogni sera i due ubriachi a casa. Mi domando che sarà di lui! Lo avete osservato?
— Sì, un vecchio viso, quasi come il mio.
— Ma nel vostro vi si legge la speranza mentre
nel suo no.
Lo
sconosciuto lo guardò.
— Credete proprio? M'immaginavo che la
speranza fosse per sempre fuggita da me.
Il
vecchio interessava il dottore. Evidentemente egli era un signore malgrado il
suo vestire dimesso.
— Non sono avvezzo riflettere troppo su quanto
vedo a Whitechapel — continuò il dottore. — Forse voi non lo conoscete quanto me.
— Può darsi... io vado sovente fuori. Pure ho
vissuto in questo quartiere molti anni.
— Davvero?
— Sì, e morirò qui senza dubbio.
Il
dottore diede una leggera scrollatina di spalle.
— Tutti dobbiamo morire, ma che importa un
luogo più di un altro...
— O quando! — aggiunse il vecchio.
— Nelle vostre parole non trapela troppa
speranza — disse Kingsford. — Noi
dottori, avvezzi a veder morire, si finisce col diventare indifferenti ed a
dimenticare il terrore della morte.
— Sì, finché non giunge a casa vostra, perchè,
dottore o no, la morte è pur sempre una grande misteriosa e terribile dea.
— Avete ragione.
— Così, voi siete dottore? Mi permettete di
chiedervi il vostro nome?
— Kingsford, Maurizio Kingsford.
— Ah! Ho udito parlare di voi. La mia figliola
va qualche volta a visitare i poveri ed essi le parlano di voi. Mi chiamo
Forsythe. Spero ci conosceremo meglio. Buona notte.
Attraversò
la via lentamente, lasciando Kingsford solo, sorpreso di quell'individuo che
non sapeva come classificare.
— Forsythe! Non ho mai udito questo nome.
Probabilmente non lo rivedrò mai più, quindi è inutile che mi secchi oltre
cercando di ricordarmi il suo nome. Certo il bere è un brutto vizio, però in
una sera come questa, un buon fuoco, con un bicchiere di whisky caldo, ed una
pipa, è la migliore delle cose.
E se
ne andò frettoloso a casa per godersi quella soddisfazione.
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