Il Testamento della
Morte di Giuseppe Fabbri Fletther
Presentazione
Romanzo Poliziesco. Genere Avventuroso-Suspense. Police
procedural: mentre i gialli classici adottano la convenzione di far coincidere
il climax con la rivelazione del nome del colpevole, nel Police Procedural
l'identità del cattivo è spesso nota al lettore sin dall'inizio della storia.
Una sera un vecchio venditore di libri antichi si reca nello
studio del Notaio Castelli per parlare con lui. Il notaio non c’è e le ultime
volontà del vecchio, che in quello studio trova la morte per infarto cardiaco,
vengono raccolte da un collaboratore del notaio: Leandro Sarti. Il quale entra
in possesso anche di un testamento olografo.
Da quel momento la vita di più persone viene sconvolta e
all’avvocato Umberto Spallino è dato l’incarico di dipanare la complessa
vicenda assicurando alla giustizia i colpevoli di turno.
In una Livorno del 2008, ben caratterizzata, si sviluppa una
storia avvincente e affascinante che ci farà scoprire come il delitto non paga
mai.
Ogni riferimento a fatti o persone, esistenti o esistite, è
puramente casuale. La storia è frutto di fantasia e non ha alcun riferimento
con la realtà.
Incipit
Leandro
Prati, impiegato dell’ufficio legale e notarile Castelli & Pasquini di Livorno,
un giovanotto che desiderava ardentemente fare strada nella vita, con qualunque
mezzo senza eccezioni, aveva trovato un giorno visitando la biblioteca della
città una massima di San Francesco di Sales che gli era piaciuta moltissimo. «Bisogna avere un cuore capace di pazientare,»
diceva San Francesco, «i grandi disegni
si realizzano solo con molta pazienza e con molto tempo». Quella sembrava a
Leandro Prati una delle più belle gocce di saggezza, che mai gli fossero
capitate sott’occhio.
Egli
sapeva che la pazienza e la sua ambizione lo avrebbero portato lontano. Inoltre
egli era consapevole che c’era un’altra cosa, oltre al tempo, alla pazienza e
all’abilità, necessarie ai giovani forniti delle sue doti, una cosa che anche San
Francesco apprezzava molto... l’occasione.
Egli
poteva trovare in sé delle risorse di pazienza, aveva tempo disponibile... ma
bisognava che l’occasione si presentasse ad aiutarlo. In altre parole, a Leandro
Prati occorreva un’occasione. Quando si fosse presentata avrebbe ben saputo
afferrarla.
Prati
non lo sapeva, mentre se ne stava nel vestibolo dell’ufficio legale, alla fine
di un certo pomeriggio d’inverno, ma l’occasione che egli aspettava stava
proprio salendo le scale... e non solo l’occasione, ma la tentazione, sospinte
entrambe dal diavolo. Arrivarono al momento giusto, poiché Prati era solo. I notai
e gli avvocati erano usciti, gli altri impiegati erano usciti, il fattorino era
uscito e di lì a pochi minuti anche Prati sarebbe uscito.
Stava
soltanto dando un’occhiata attorno prima di chiudere l’ufficio. Occasione e
tentazione entrarono sotto la forma di un vecchio, certo Andrea Bartolomei il
quale aprì la porta, mise dentro la testa e domandò con voce tremula se c’era
qualcuno.
—
Ci sono io, signor Bartolomei — rispose Prati riaccendendo la luce che aveva
appena spenta. — Accomodatevi. In che cosa posso servirvi?
Andrea
Bartolomei entrò sbuffando e tossendo. Era molto vecchio, debole e curvo, con
una faccia tutta raggrinzita. Nulla sembrava vitale in lui, eccetto gli occhi
luminosi e mobilissimi. Tutti lo conoscevano, era una delle istituzioni di Livorno.
Da
cinquant’anni aveva un negozio di libri d’occasione in Via Leonardo Gambini, il
vicolo che congiungeva Via Roma con Via Marradi. Non era un comune negozio di
libri usati. Il proprietario si qualificava libraio
antiquario, era conosciuto in due continenti e faceva affari con bibliofili
milionari.
La
gente di Livorno talvolta si stupiva udendo raccontare che il signor Andrea Bartolomei
aveva pagato duecentomila Euro per un incunabolo, oppure aveva venduto per il
doppio di quella cifra un Messale a qualche collezionista russo. Si aveva una
vaga idea che il vecchio fosse fornito di mezzi, nonostante il suo aspetto
miserabile e trasandato, e che quel suo bizzarro negozietto, nella cui vetrina
erano esposti certi volumi che all’occhio inesperto parevano da buttare nella
carta straccia, doveva contenere molta merce convertibile in oro.
Queste
non erano che congetture, ma da Castelli & Pasquini si sapeva tutto sul
conto di Andrea Bartolomei, poiché quello era l’ufficio notarile di cui il
vecchio si serviva. Leandro Prati che era il primo impiegato ne sapeva quanto i
principali. Il testamento di Bartolomei era depositato allo studio notarile e
lo stesso Prati aveva fatto da testimone all’atto della stesura.
Il
vecchio si avanzò nel vestibolo fino a un tavolino al quale si appoggiò
ansando. Prati si affrettò ad aprire l’uscio di uno studio privato.
—
Venite nello studio del dottor Castelli, signor Bartolomei — disse. — C’è una
poltrona comoda... sedetevi. Queste scale sono faticose, è vero? Io stesso
talvolta rimpiango che l’ufficio non sia al pianterreno.
Accese
la luce nella stanza di Castelli che era il decano dello studio, poi prese a
braccetto il visitatore e lo sorresse fino alla poltrona. Infine, dopo aver
chiuso l’uscio, si sedette alla scrivania di Castelli, intrecciò le dita e
aspettò.
Sapeva
per esperienza che il vecchio Bartolomei non poteva esser venuto se non per
affari. Sapeva anche, essendo da molti anni impiegato da Castelli &
Pasquini, che si sarebbe sbottonato con lui come con i suoi principali.
— Fuori
c’è un nebbione d’inferno — brontolò Bartolomei dopo un accesso di tosse. — Mi
penetra nei polmoni, mi fa tossire e allora il mio povero cuore ammattisce. Il
dottor Castelli non c’è?
— Se
n’è già andato — rispose Prati. — Tutti se ne sono andati, signor Bartolomei...
ci sono soltanto io.
— Non
fa niente — fece il libraio. — Mi bastate.
Si
protese in avanti e batté sul braccio dell’impiegato con un indice lungo che
pareva un artiglio, poi soggiunse sorridendo:
—
Sapete, ho fatto una scoperta!
— Ah,
sì? Qualcuno dei vostri libri rari, signor Bartolomei? Forse avete comprato per
due centesimi qualcosa che potrete vendere per dieci euro? Sempre fortunato,
voi!
— Niente
di tutto questo! — ribattè Bartolomei ridacchiando. — Ho trovato qualcos’altro,
una mezz’ora fa, e sono venuto qui difilato. Roba da notaio naturalmente.
— Si?
E di che cosa si tratta? — domandò ancora Prati.
Si
aspettava che il visitatore traesse qualcosa di tasca, ma il vecchio tornò a
protendersi in avanti e ancora una volta puntò l’indice contro il suo braccio.
— Dite
un po’, vi ricordate di Gaetano Malenchini e della faccenda di... quanto tempo
è passato?
— Due
anni — rispose Prati prontamente. — Naturale che mi ricordo. Come potrei
essermene dimenticato?
Il
giovanotto riandò con la mente a un episodio che aveva sollevato grande
scalpore nella zona di Livorno. Una mattina d’inverno, circa due anni prima, il
signor Gaetano Malenchini, uno dei più noti industriali tessili della città era
rimasto ucciso nel crollo della ciminiera del suo stabilimento.
Le
condizioni della ciminiera avevano già destato qualche preoccupazione e da
parecchi giorni il torrione era sottoposto all’esame di una commissione di
tecnici. Al momento della catastrofe Malenchini stesso, alcuni dei dirigenti
principali della sua azienda e un paio di geometri erano riuniti alla base per
esaminare un rapporto.
L’enorme
struttura alta più di trenta metri era crollata all’improvviso. Malenchini, il
direttore generale dello stabilimento e il cassiere erano rimasti uccisi sul
colpo e altri due erano morti in seguito, per le ferite riportate.
A
memoria d’uomo non era mai accaduta a Livorno una tragedia simile e se ne era
fatto un gran parlare tanto più che i tecnici, dopo l’esame, avevano dichiarato
che la ciminiera non era pericolante.
I
proprietari degli altri stabilimenti industriali dei dintorni avevano fatto
subito esaminare i loro camini e per diverse settimane la gente di Livorno non
aveva fatto altro che parlare del pericolo di vivere all’ombra delle ciminiere
degli stabilimenti.
Ma
ben presto era saltato fuori qualcos’altro di cui valeva la pena parlare. Si
trattava di qualcosa che poteva interessare in modo particolare Leandro Prati,
data la sua professione.
Gaetano
Malenchini per quanto si sapeva, era morto senza testamento. Nessun notaio
della città aveva mai steso un testamento per lui. Nessuno aveva mai sentito
dire che egli l’avesse fatto. Non c’erano le sue ultime volontà.
Le
più minute ricerche nelle sue casseforti, nelle sue scrivanie, in tutti i suoi
cassetti non avevano avuto esito. Non c’era nemmeno un memorandum. Nessun amico
suo l’aveva mai sentito menzionare un testamento.
Era
sempre stato un uomo un po’ bizzarro. Era uno scapolo ostinato. Gli unici
parenti che avesse al mondo erano: sua cognata, vedova di un fratello minore e
i due figli di lei... un maschio e una femmina. Non appena era risultato che Malenchini
era morto senza testamento essi avevano reclamato il patrimonio.
Malenchini
aveva lasciato una bella sostanza. In tutta la sua vita non aveva fatto che
guadagnare quattrini, e la sua azienda era molto importante, tanto che dava
lavoro a duemila operai.
Il
reddito annuo della tessitura si calcolava sui quattro o cinque milioni di euro,
al netto delle tasse. Qualche anno prima della sua morte, l’industriale aveva
comperato una delle più belle tenute del luogo, Villa Toscana, una bella casa
antica situata in una località silvestre, contigua al mare, che aveva il grande
vantaggio di trovarsi alla periferia della città di Livorno.
Non
era dunque un patrimonio da nulla quello che la signora Malenchini e i suoi due
figlioli reclamavano. Fino al momento della morte del signor Gaetano Malenchini
i tre avevano vissuto molto modestamente con un assegno che passava loro il
ricco congiunto, poiché Riccardo Malenchini, a differenza di suo fratello,
aveva sempre avuto le mani bucate.
I
loro diritti... o per essere più precisi, i diritti dei due nipoti erano
incontestabili dal momento che sembrava assodato che Gaetano Malenchini era
morto senza testamento. Il nipote si era preso tutti i beni immobili e aveva
diviso con la sorella il resto. Già da qualche mese la famiglia si era
installata a Villa Toscana e aveva preso possesso di tutto ciò che aveva
appartenuto al morto.
Tutto
questo ripassò nella mente di Leandro Prati in pochi secondi. Conosceva tutta
la storia e spesso aveva pensato che quei due giovani avevano avuto una bella
fortuna. Aver vissuto quasi di carità fino a ieri... e trovarsi oggi padroni di
una rendita di milioni di euro all’anno! Oh, se fosse capitato a lui!
— Naturale
che me ne ricordo! — ripetè fissando il vecchio libraio con aria pensosa. —
Sono cose che non si dimenticano da un giorno all’altro, signor Bartolomei. Ma
che c’entra la tragedia della tessitura Malenchini con la vostra scoperta?
Andrea
Bartolomei si abbandonò all’indietro sulla poltrona e si mise a ridere.
— Io
ho ottant’anni — disse. — Anzi, per essere più esatto, avrò ottantadue anni a
febbraio. Quando avrete vissuto quanto me, mio giovane amico, saprete che la
vita è fatta di alti e bassi... di capovolgimenti... specialmente per certuni.
Ve lo dico io.
— Non
sarete venuto per dirmi questo, signor Bartolomei — fece Prati. — Senza bisogno
di essere vecchio, lo so già.
— Già,
già, ma lo saprete meglio con l’andar del tempo — ribattè Bartolomei. — Ebbene,
forse saprete anche che il defunto Gaetano Malenchini era... come posso dire...
un mezzo bibliofilo. Faceva collezione di libri e opuscoli relativi alle più
svariate materie.
— L’ho
sentito dire.
— Teneva
quella collezione nel suo studio privato, alla Tessitura — soggiunse il
libraio. — E quando gli eredi hanno preso possesso di ogni cosa, li ho convinti
a vendermela. I volumi non erano molti... forse un centinaio tutti assieme...
ma m’interessavano. Questo accadeva qualche mese fa. Ho messo i libri in un
angolo e non li ho mai esaminati per bene fino a oggi, nel pomeriggio. Proprio
oggi ho ricevuto una lettera da un tale di Livorno che ora abita in Germania,
il quale voleva sapere se gli potevo fornire una copia in buono stato della
«Storia di Livorno» di Giuseppe Piombanti. Sapevo che ce n’era una nella
collezione Malenchini, quindi l’ho tirata fuori e l’ho esaminata. Allora, in
una specie di tasca che c’è all’interno della rilegatura e che contiene una
cartina topografica, ho trovato... indovinate che cosa...
— Non
saprei — rispose Prati.
Pensava
al suo pranzo e a un appuntamento che aveva in serata, e non immaginava nemmeno
lontanamente che il vecchio Bartolomei fosse sul punto di dirgli qualcosa
d’importante davvero.
—
Lettere? Banconote? Qualcosa di simile?
Il
vecchio libraio per la terza volta si protese in avanti posando una mano sulla
scrivania e fissando il volto astuto di Prati.
— Ho
trovato il testamento di Gaetano Malenchini! — sussurrò. — Il suo testamento!
Leandro
Prati fece un salto sulla seggiola. Per un momento rimase ammutolito fissando
attonito il vecchio, poi si cacciò le mani nelle tasche dei pantaloni ed
esclamò:
— No!
Il testamento di Gaetano Malenchini?
— Sicuro
— ribattè Bartolomei e annui più volte. Il suo testamento... steso proprio il
giorno della sua morte. Strano, non vi pare? Si direbbe che avesse avuto un
presentimento.
Prati
corrugò la fronte.
— Dov’è
il testamento? — domandò.
— L’ho
qui in tasca — rispose il libraio battendosi il petto con la mano sinistra. — È
tutto in regola, ve lo garantisco. Scritto chiaro, firmato dal testatore e dai testimoni.
Me ne intendo perché tempo fa... molto tempo fa... ero come voi impiegato in
uno studio notarile. L’ho letto da cima a fondo e sfido chiunque a trovare un
appiglio per impugnarlo.
— Mostratemelo
— fece Prati avidamente.
— Ecco,
io non ho nulla in contrario vi conosco bene, s’intende — rispose Bartolomei —
però preferirei mostrarlo prima al dottor Castelli. Non potreste telefonargli a
casa e pregarlo di ritornare qui?
— Certo
— disse Prati. — Forse non è ancora rientrato, ma posso provare. L’avete
mostrato a qualcun altro?
— Non
l’ho mostrato a nessuno e non ne ho parlato ad anima viva — dichiarò il
libraio. — Vi dico che non sarà nemmeno mezz’ora che l’ho trovato. Non è un
documento lungo. E sapete com’è che nessuno ne ha mai saputo niente? — prosegui
piantando gli occhi in faccia a Prati che si era alzato. — Semplicissimo. I
testimoni che firmarono il testamento furono uccisi assieme a Gaetano Malenchini!
Secondo me, lui e questi due... Giuntini e Martini, il direttore e il
cassiere... avevano firmato il documento poco prima dell’incidente e Malenchini,
dovendo uscire per vedere la ciminiera, lo infilò nel libro riserbandosi di
leggerlo altrove più tardi. Non siete, del mio parere? Ma ora, vedete un po’ se
potete fare venire qui il notaio Castelli. Lo leggeremo insieme. Ehi... che
aria pesante in questo studio... non potreste aprire la finestra... mi sento
oppresso...
Prati
aprì la finestra che guardava nella strada. Diede un’occhiata al vecchio e vide
che il suo viso, abitualmente pallido, era più smorto del solito.
— Avete
parlato troppo — disse. — Riposatevi un momento, signor Bartolomei, mentre io
telefono a casa del notaio. Se non c’è, posso cercarlo al suo circolo. Spesso
ci va a passare un’oretta prima di rientrare.
L’installazione
dello studio Castelli & Pasquini era antiquata e l’unico apparecchio
telefonico era situato in una specie di minuscolo vestibolo che separava la
stanza dell’uno da quella dell’altro dei due soci. Inoltre, in quel vecchio
edificio i telefonini non avevano campo.
Mentre
aspettava d’essere messo in comunicazione con la casa del suo principale, Prati
si domandava quale influenza avrebbe potuto avere la scoperta del testamento
sulle sorti della famiglia che era attualmente in possesso del patrimonio.
Il
giovane era divorato dalla curiosità. Se non avesse potuto trovare Castelli né
a casa né altrove, avrebbe persuaso il vecchio Bartolomei a lasciargli vedere
il documento. Oramai non gl’importava più di andare a pranzo in ritardo purché
gli fosse concesso di dare un’occhiata a quel pezzo di carta. Quali potevano
essere le disposizioni testamentarie prese dall’industriale? Bartolomei aveva
parlato di alti e bassi, di rivolgimenti. Voleva forse dire che...
— Pronto!
Il
telefono di casa Castelli aveva risposto, ma il notaio non c’era. Prati chiamò
il circolo. Anche là gli dissero che non l’avevano visto. Riappese il
ricevitore e ritornò nello studio.
— Non
riesco proprio a trovarlo, signor Bartolomei — cominciò mentre chiudeva
l’uscio. — A casa non c’è, al circolo non c’è... Sentite, non potreste
lasciarmi dare un’occhiata...
Prati
si fermò di botto. C’era uno strano silenzio nella stanza. Il respiro affannoso
del vecchio non si sentiva più. Il giovane si avanzò lesto e guardò nella
poltrona...
Capi
subito quel che era successo... capi che il vecchio Bartolomei era morto, prima
di posare un dito sulla mano scarna che era ricaduta inerte dal bracciolo della
poltrona. Era morto senza un grido, senza un movimento... morto tranquillamente
come se si fosse addormentato.
In
verità aveva tutta l’aria di essersi soltanto assopito, ma Prati che non era
nuovo allo spettacolo della morte sapeva che da quel sonno non si sarebbe più
svegliato. Aspettò un momento ascoltando in silenzio. Toccò ancora la mano del
vecchio, si chinò a guardarlo in viso, e infine senza esitare, senza il più
piccolo tremito delle dita, gli sbottonò la giacca e dalla tasca interna trasse
un foglio piegato.
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