lunedì 11 aprile 2016

Il Testamento della Morte



Il Testamento della Morte di Giuseppe Fabbri Fletther

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Presentazione
Romanzo Poliziesco. Genere Avventuroso-Suspense. Police procedural: mentre i gialli classici adottano la convenzione di far coincidere il climax con la rivelazione del nome del colpevole, nel Police Procedural l'identità del cattivo è spesso nota al lettore sin dall'inizio della storia.
Una sera un vecchio venditore di libri antichi si reca nello studio del Notaio Castelli per parlare con lui. Il notaio non c’è e le ultime volontà del vecchio, che in quello studio trova la morte per infarto cardiaco, vengono raccolte da un collaboratore del notaio: Leandro Sarti. Il quale entra in possesso anche di un testamento olografo.
Da quel momento la vita di più persone viene sconvolta e all’avvocato Umberto Spallino è dato l’incarico di dipanare la complessa vicenda assicurando alla giustizia i colpevoli di turno.
In una Livorno del 2008, ben caratterizzata, si sviluppa una storia avvincente e affascinante che ci farà scoprire come il delitto non paga mai.
Ogni riferimento a fatti o persone, esistenti o esistite, è puramente casuale. La storia è frutto di fantasia e non ha alcun riferimento con la realtà.
Incipit
Leandro Prati, impiegato dell’ufficio legale e notarile Castelli & Pasquini di Livorno, un giovanotto che desiderava ardentemente fare strada nella vita, con qualunque mezzo senza eccezioni, aveva trovato un giorno visitando la biblioteca della città una massima di San Francesco di Sales che gli era piaciuta moltissimo. «Bisogna avere un cuore capace di pazientare,» diceva San Francesco, «i grandi disegni si realizzano solo con molta pazienza e con molto tempo». Quella sembrava a Leandro Prati una delle più belle gocce di saggezza, che mai gli fossero capitate sott’occhio.
Egli sapeva che la pazienza e la sua ambizione lo avrebbero portato lontano. Inoltre egli era consapevole che c’era un’altra cosa, oltre al tempo, alla pazienza e all’abilità, necessarie ai giovani forniti delle sue doti, una cosa che anche San Francesco apprezzava molto... l’occasione.
Egli poteva trovare in sé delle risorse di pazienza, aveva tempo disponibile... ma bisognava che l’occasione si presentasse ad aiutarlo. In altre parole, a Leandro Prati occorreva un’occasione. Quando si fosse presentata avrebbe ben saputo afferrarla.
Prati non lo sapeva, mentre se ne stava nel vestibolo dell’ufficio legale, alla fine di un certo pomeriggio d’inverno, ma l’occasione che egli aspettava stava proprio salendo le scale... e non solo l’occasione, ma la tentazione, sospinte entrambe dal diavolo. Arrivarono al momento giusto, poiché Prati era solo. I notai e gli avvocati erano usciti, gli altri impiegati erano usciti, il fattorino era uscito e di lì a pochi minuti anche Prati sarebbe uscito.
Stava soltanto dando un’occhiata attorno prima di chiudere l’ufficio. Occasione e tentazione entrarono sotto la forma di un vecchio, certo Andrea Bartolomei il quale aprì la porta, mise dentro la testa e domandò con voce tremula se c’era qualcuno.
— Ci sono io, signor Bartolomei — rispose Prati riaccendendo la luce che aveva appena spenta. — Accomodatevi. In che cosa posso servirvi?
Andrea Bartolomei entrò sbuffando e tossendo. Era molto vecchio, debole e curvo, con una faccia tutta raggrinzita. Nulla sembrava vitale in lui, eccetto gli occhi luminosi e mobilissimi. Tutti lo conoscevano, era una delle istituzioni di Livorno.
Da cinquant’anni aveva un negozio di libri d’occasione in Via Leonardo Gambini, il vicolo che congiungeva Via Roma con Via Marradi. Non era un comune negozio di libri usati. Il proprietario si qualificava libraio antiquario, era conosciuto in due continenti e faceva affari con bibliofili milionari.
La gente di Livorno talvolta si stupiva udendo raccontare che il signor Andrea Bartolomei aveva pagato duecentomila Euro per un incunabolo, oppure aveva venduto per il doppio di quella cifra un Messale a qualche collezionista russo. Si aveva una vaga idea che il vecchio fosse fornito di mezzi, nonostante il suo aspetto miserabile e trasandato, e che quel suo bizzarro negozietto, nella cui vetrina erano esposti certi volumi che all’occhio inesperto parevano da buttare nella carta straccia, doveva contenere molta merce convertibile in oro.
Queste non erano che congetture, ma da Castelli & Pasquini si sapeva tutto sul conto di Andrea Bartolomei, poiché quello era l’ufficio notarile di cui il vecchio si serviva. Leandro Prati che era il primo impiegato ne sapeva quanto i principali. Il testamento di Bartolomei era depositato allo studio notarile e lo stesso Prati aveva fatto da testimone all’atto della stesura.
Il vecchio si avanzò nel vestibolo fino a un tavolino al quale si appoggiò ansando. Prati si affrettò ad aprire l’uscio di uno studio privato.
— Venite nello studio del dottor Castelli, signor Bartolomei — disse. — C’è una poltrona comoda... sedetevi. Queste scale sono faticose, è vero? Io stesso talvolta rimpiango che l’ufficio non sia al pianterreno.
Accese la luce nella stanza di Castelli che era il decano dello studio, poi prese a braccetto il visitatore e lo sorresse fino alla poltrona. Infine, dopo aver chiuso l’uscio, si sedette alla scrivania di Castelli, intrecciò le dita e aspettò.
Sapeva per esperienza che il vecchio Bartolomei non poteva esser venuto se non per affari. Sapeva anche, essendo da molti anni impiegato da Castelli & Pasquini, che si sarebbe sbottonato con lui come con i suoi principali.
— Fuori c’è un nebbione d’inferno — brontolò Bartolomei dopo un accesso di tosse. — Mi penetra nei polmoni, mi fa tossire e allora il mio povero cuore ammattisce. Il dottor Castelli non c’è?
— Se n’è già andato — rispose Prati. — Tutti se ne sono andati, signor Bartolomei... ci sono soltanto io.
— Non fa niente — fece il libraio. — Mi bastate.
Si protese in avanti e batté sul braccio dell’impiegato con un indice lungo che pareva un artiglio, poi soggiunse sorridendo:
— Sapete, ho fatto una scoperta!
— Ah, sì? Qualcuno dei vostri libri rari, signor Bartolomei? Forse avete comprato per due centesimi qualcosa che potrete vendere per dieci euro? Sempre fortunato, voi!
— Niente di tutto questo! — ribattè Bartolomei ridacchiando. — Ho trovato qualcos’altro, una mezz’ora fa, e sono venuto qui difilato. Roba da notaio naturalmente.
— Si? E di che cosa si tratta? — domandò ancora Prati.
Si aspettava che il visitatore traesse qualcosa di tasca, ma il vecchio tornò a protendersi in avanti e ancora una volta puntò l’indice contro il suo braccio.
— Dite un po’, vi ricordate di Gaetano Malenchini e della faccenda di... quanto tempo è passato?
— Due anni — rispose Prati prontamente. — Naturale che mi ricordo. Come potrei essermene dimenticato?
Il giovanotto riandò con la mente a un episodio che aveva sollevato grande scalpore nella zona di Livorno. Una mattina d’inverno, circa due anni prima, il signor Gaetano Malenchini, uno dei più noti industriali tessili della città era rimasto ucciso nel crollo della ciminiera del suo stabilimento.
Le condizioni della ciminiera avevano già destato qualche preoccupazione e da parecchi giorni il torrione era sottoposto all’esame di una commissione di tecnici. Al momento della catastrofe Malenchini stesso, alcuni dei dirigenti principali della sua azienda e un paio di geometri erano riuniti alla base per esaminare un rapporto.
L’enorme struttura alta più di trenta metri era crollata all’improvviso. Malenchini, il direttore generale dello stabilimento e il cassiere erano rimasti uccisi sul colpo e altri due erano morti in seguito, per le ferite riportate.
A memoria d’uomo non era mai accaduta a Livorno una tragedia simile e se ne era fatto un gran parlare tanto più che i tecnici, dopo l’esame, avevano dichiarato che la ciminiera non era pericolante.
I proprietari degli altri stabilimenti industriali dei dintorni avevano fatto subito esaminare i loro camini e per diverse settimane la gente di Livorno non aveva fatto altro che parlare del pericolo di vivere all’ombra delle ciminiere degli stabilimenti.
Ma ben presto era saltato fuori qualcos’altro di cui valeva la pena parlare. Si trattava di qualcosa che poteva interessare in modo particolare Leandro Prati, data la sua professione.
Gaetano Malenchini per quanto si sapeva, era morto senza testamento. Nessun notaio della città aveva mai steso un testamento per lui. Nessuno aveva mai sentito dire che egli l’avesse fatto. Non c’erano le sue ultime volontà.
Le più minute ricerche nelle sue casseforti, nelle sue scrivanie, in tutti i suoi cassetti non avevano avuto esito. Non c’era nemmeno un memorandum. Nessun amico suo l’aveva mai sentito menzionare un testamento.
Era sempre stato un uomo un po’ bizzarro. Era uno scapolo ostinato. Gli unici parenti che avesse al mondo erano: sua cognata, vedova di un fratello minore e i due figli di lei... un maschio e una femmina. Non appena era risultato che Malenchini era morto senza testamento essi avevano reclamato il patrimonio.
Malenchini aveva lasciato una bella sostanza. In tutta la sua vita non aveva fatto che guadagnare quattrini, e la sua azienda era molto importante, tanto che dava lavoro a duemila operai.
Il reddito annuo della tessitura si calcolava sui quattro o cinque milioni di euro, al netto delle tasse. Qualche anno prima della sua morte, l’industriale aveva comperato una delle più belle tenute del luogo, Villa Toscana, una bella casa antica situata in una località silvestre, contigua al mare, che aveva il grande vantaggio di trovarsi alla periferia della città di Livorno.
Non era dunque un patrimonio da nulla quello che la signora Malenchini e i suoi due figlioli reclamavano. Fino al momento della morte del signor Gaetano Malenchini i tre avevano vissuto molto modestamente con un assegno che passava loro il ricco congiunto, poiché Riccardo Malenchini, a differenza di suo fratello, aveva sempre avuto le mani bucate.
I loro diritti... o per essere più precisi, i diritti dei due nipoti erano incontestabili dal momento che sembrava assodato che Gaetano Malenchini era morto senza testamento. Il nipote si era preso tutti i beni immobili e aveva diviso con la sorella il resto. Già da qualche mese la famiglia si era installata a Villa Toscana e aveva preso possesso di tutto ciò che aveva appartenuto al morto.
Tutto questo ripassò nella mente di Leandro Prati in pochi secondi. Conosceva tutta la storia e spesso aveva pensato che quei due giovani avevano avuto una bella fortuna. Aver vissuto quasi di carità fino a ieri... e trovarsi oggi padroni di una rendita di milioni di euro all’anno! Oh, se fosse capitato a lui!
— Naturale che me ne ricordo! — ripetè fissando il vecchio libraio con aria pensosa. — Sono cose che non si dimenticano da un giorno all’altro, signor Bartolomei. Ma che c’entra la tragedia della tessitura Malenchini con la vostra scoperta?
Andrea Bartolomei si abbandonò all’indietro sulla poltrona e si mise a ridere.
— Io ho ottant’anni — disse. — Anzi, per essere più esatto, avrò ottantadue anni a febbraio. Quando avrete vissuto quanto me, mio giovane amico, saprete che la vita è fatta di alti e bassi... di capovolgimenti... specialmente per certuni. Ve lo dico io.
— Non sarete venuto per dirmi questo, signor Bartolomei — fece Prati. — Senza bisogno di essere vecchio, lo so già.
— Già, già, ma lo saprete meglio con l’andar del tempo — ribattè Bartolomei. — Ebbene, forse saprete anche che il defunto Gaetano Malenchini era... come posso dire... un mezzo bibliofilo. Faceva collezione di libri e opuscoli relativi alle più svariate materie.
— L’ho sentito dire.
— Teneva quella collezione nel suo studio privato, alla Tessitura — soggiunse il libraio. — E quando gli eredi hanno preso possesso di ogni cosa, li ho convinti a vendermela. I volumi non erano molti... forse un centinaio tutti assieme... ma m’interessavano. Questo accadeva qualche mese fa. Ho messo i libri in un angolo e non li ho mai esaminati per bene fino a oggi, nel pomeriggio. Proprio oggi ho ricevuto una lettera da un tale di Livorno che ora abita in Germania, il quale voleva sapere se gli potevo fornire una copia in buono stato della «Storia di Livorno» di Giuseppe Piombanti. Sapevo che ce n’era una nella collezione Malenchini, quindi l’ho tirata fuori e l’ho esaminata. Allora, in una specie di tasca che c’è all’interno della rilegatura e che contiene una cartina topografica, ho trovato... indovinate che cosa...
— Non saprei — rispose Prati.
Pensava al suo pranzo e a un appuntamento che aveva in serata, e non immaginava nemmeno lontanamente che il vecchio Bartolomei fosse sul punto di dirgli qualcosa d’importante davvero.
— Lettere? Banconote? Qualcosa di simile?
Il vecchio libraio per la terza volta si protese in avanti posando una mano sulla scrivania e fissando il volto astuto di Prati.
— Ho trovato il testamento di Gaetano Malenchini! — sussurrò. — Il suo testamento!
Leandro Prati fece un salto sulla seggiola. Per un momento rimase ammutolito fissando attonito il vecchio, poi si cacciò le mani nelle tasche dei pantaloni ed esclamò:
— No! Il testamento di Gaetano Malenchini?
— Sicuro — ribattè Bartolomei e annui più volte. Il suo testamento... steso proprio il giorno della sua morte. Strano, non vi pare? Si direbbe che avesse avuto un presentimento.
Prati corrugò la fronte.
— Dov’è il testamento? — domandò.
— L’ho qui in tasca — rispose il libraio battendosi il petto con la mano sinistra. — È tutto in regola, ve lo garantisco. Scritto chiaro, firmato dal testatore e dai testimoni. Me ne intendo perché tempo fa... molto tempo fa... ero come voi impiegato in uno studio notarile. L’ho letto da cima a fondo e sfido chiunque a trovare un appiglio per impugnarlo.
— Mostratemelo — fece Prati avidamente.
— Ecco, io non ho nulla in contrario vi conosco bene, s’intende — rispose Bartolomei — però preferirei mostrarlo prima al dottor Castelli. Non potreste telefonargli a casa e pregarlo di ritornare qui?
— Certo — disse Prati. — Forse non è ancora rientrato, ma posso provare. L’avete mostrato a qualcun altro?
— Non l’ho mostrato a nessuno e non ne ho parlato ad anima viva — dichiarò il libraio. — Vi dico che non sarà nemmeno mezz’ora che l’ho trovato. Non è un documento lungo. E sapete com’è che nessuno ne ha mai saputo niente? — prosegui piantando gli occhi in faccia a Prati che si era alzato. — Semplicissimo. I testimoni che firmarono il testamento furono uccisi assieme a Gaetano Malenchini! Secondo me, lui e questi due... Giuntini e Martini, il direttore e il cassiere... avevano firmato il documento poco prima dell’incidente e Malenchini, dovendo uscire per vedere la ciminiera, lo infilò nel libro riserbandosi di leggerlo altrove più tardi. Non siete, del mio parere? Ma ora, vedete un po’ se potete fare venire qui il notaio Castelli. Lo leggeremo insieme. Ehi... che aria pesante in questo studio... non potreste aprire la finestra... mi sento oppresso...
Prati aprì la finestra che guardava nella strada. Diede un’occhiata al vecchio e vide che il suo viso, abitualmente pallido, era più smorto del solito.
— Avete parlato troppo — disse. — Riposatevi un momento, signor Bartolomei, mentre io telefono a casa del notaio. Se non c’è, posso cercarlo al suo circolo. Spesso ci va a passare un’oretta prima di rientrare.
L’installazione dello studio Castelli & Pasquini era antiquata e l’unico apparecchio telefonico era situato in una specie di minuscolo vestibolo che separava la stanza dell’uno da quella dell’altro dei due soci. Inoltre, in quel vecchio edificio i telefonini non avevano campo.
Mentre aspettava d’essere messo in comunicazione con la casa del suo principale, Prati si domandava quale influenza avrebbe potuto avere la scoperta del testamento sulle sorti della famiglia che era attualmente in possesso del patrimonio.
Il giovane era divorato dalla curiosità. Se non avesse potuto trovare Castelli né a casa né altrove, avrebbe persuaso il vecchio Bartolomei a lasciargli vedere il documento. Oramai non gl’importava più di andare a pranzo in ritardo purché gli fosse concesso di dare un’occhiata a quel pezzo di carta. Quali potevano essere le disposizioni testamentarie prese dall’industriale? Bartolomei aveva parlato di alti e bassi, di rivolgimenti. Voleva forse dire che...
— Pronto!
Il telefono di casa Castelli aveva risposto, ma il notaio non c’era. Prati chiamò il circolo. Anche là gli dissero che non l’avevano visto. Riappese il ricevitore e ritornò nello studio.
— Non riesco proprio a trovarlo, signor Bartolomei — cominciò mentre chiudeva l’uscio. — A casa non c’è, al circolo non c’è... Sentite, non potreste lasciarmi dare un’occhiata...
Prati si fermò di botto. C’era uno strano silenzio nella stanza. Il respiro affannoso del vecchio non si sentiva più. Il giovane si avanzò lesto e guardò nella poltrona...
Capi subito quel che era successo... capi che il vecchio Bartolomei era morto, prima di posare un dito sulla mano scarna che era ricaduta inerte dal bracciolo della poltrona. Era morto senza un grido, senza un movimento... morto tranquillamente come se si fosse addormentato.

In verità aveva tutta l’aria di essersi soltanto assopito, ma Prati che non era nuovo allo spettacolo della morte sapeva che da quel sonno non si sarebbe più svegliato. Aspettò un momento ascoltando in silenzio. Toccò ancora la mano del vecchio, si chinò a guardarlo in viso, e infine senza esitare, senza il più piccolo tremito delle dita, gli sbottonò la giacca e dalla tasca interna trasse un foglio piegato.

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