Ragnatela di Inganni di Giuseppe Fletther
Presentazione
Questo
è un romanzo di fantasia che non ha nessuna attinenza con la realtà. Per questo
anche la città di Urbino è stata immaginata in un contesto fantastico in cui,
ad esempio, il Monastero di Santa Caterina d’Alessandria è stato,
architettonicamente parlando, un po’ modificato. Infatti si parla di torri che
il monastero non ha.
In
una Urbino fortemente cattolica e perbenista si svolge una storia poliziesca
oleata da perfetti meccanismi di costruzione della suspense. Lo stesso titolo
del romanzo mette in evidenza l'elemento fondamentale su cui si basa la
narrazione, ovvero un complesso intreccio di fatti che sembrano inestricabili.
I
quesiti da risolvere sono: che mistero racchiude il rapporto che lega il
giovane dottore Marco Ricci a Riccardo e Valentina Belardinetti a cui fa da
tutore? Chi è quel misterioso signore che si è presentato alla porta del dottor
Ricci e che poco dopo è stato trovato morto ai piedi del Monastero di Santa
Caterina d’Alessandria? Si è trattato di un incidente o di un omicidio? Il
giudice istruttore decide che si è trattato di un incidente, ma quando l’operaio
Cantini, garzone muratore al Monastero di Santa Caterina d’Alessandria, viene
trovato avvelenato tutto assume un altro aspetto. Che mistero racchiude
l’iscrizione: In Para. Cammerinu. juxt. tumb. Ric. Iacch. ex cap. XXV. XV?
Piano, piano viene alla luce una storia fatta di tradimenti e di vecchi
rancori. Una storia di amore, odio e vendetta.
Incipit
Il turista straniero
che entra in Urbino resta affascinato dal magico ambiente in cui viene a
trovarsi. Dal basso, il borgo, massiccio e rappreso al dorsale e ai fianchi di
due colline, lievi da un lato e ripide dall’altro, colpisce per il suo colore
ocra chiaro, per le sue mura di pietra e di cotto che si fondono con il colore
scuro delle montagne intorno.
Ma a farlo restare
senza fiato, colpito da improvviso stupore, è che, varcato i bastioni
cinquecenteschi, al di là dei malanni dei secoli e le alterazioni estetiche
operate nei secoli, respira appieno l’aria rinascimentale della cittadina così
come l’avevano concepita e vissuta il Bramante e Raffaello.
E, all’uomo di
cultura, non può non tornare alla mente quanto detto nel 1581 da Michel de
Montaigne «città non eccellente,
sull’alto di una collina di media altezza, ma che si adagia da tutte le parti,
a seconda dei pendii del luogo, di modo che non ha niente di uguale e
dappertutto bisogna scendere e salire... », o dallo spagnolo Baltasar
Graciàn y Morales «… palagi dei lodevoli
duchi di Urbino... asili di Minerva, teatri delle Belle Lettere, centri di
superiori ingegni... », o, ancora, dall’urbinese Paolo Volponi «Urbino mi piaceva ma nello stesso tempo mi
sopraffaceva... Mi sopraffaceva soprattutto la sua società, una società
piuttosto chiusa, con abitudini fisse, colma di indulgenze molto belle ma
pericolose... Le stesse bellezze di Urbino rendono l’urbinate schiavo della sua
città. Mi sentivo condizionato, come se mi trovassi dentro un liquido
amniotico, il liquido del ventre della mamma... ».
Nessun altro punto
dell’Italia offre con tanta evidenza un placido aspetto d’altri tempi. Lo
sguardo vede sorgere, nel centro di un grande spiazzo erboso, fiancheggiato di
grandi olmi e di faggi giganti, l’augusto edificio del Monastero di Santa
Caterina d’Alessandria del secolo XIV, dall’alto campanile che si erge nel
cielo in cui le cornacchie gracchiando tessono perpetui giri.
Le pietre, consunte
dal tempo, delicate a vederle dappresso come trine, assumono nelle varie ore
del giorno le più mutevoli sfumature, dal grigio al purpureo, e colpisce
l’antitesi tra la mole massiccia della navata e il campanile, che, salendo svelto
sopra le torri minori e le finestre aperte nella navata, s’assottiglia a
piramide fino a disegnarsi pura linea nello spazio.
La mattina, come il
pomeriggio e la sera, spira un’aria di riposo, e non solo intorno alla chiesa,
ma altresì dalle case antiche e caratteristiche le quali la circondano
chiudendo il recinto. L’osservatore ignaro pensa che in queste case, di data
poco meno remota della mole che guardano dalle finestre incorniciate d’edera,
la vita debba scorrere più piana che in alcun’altra parte del globo.
Sotto quegli alti
pignoni, dietro quelle finestre divise in compartimenti da traverse di pietra,
nei vecchi e bei giardini che si stendono fra le arcate di pietra e i tappeti
erbosi ombreggiati dagli olmi, par che debba svolgersi soltanto una placida e
lieta esistenza e, persino, le vie frequentate della vecchia città, racchiuse
nelle antiche mura, paiono lontane lontane.
In una delle più
antiche fra quelle case, mezzo nascosta dietro gli alberi in un angolo della
cinta, tre persone facevano insieme la prima colazione in una bella mattina di
maggio. La stanza nella quale sedevano riprendeva lo stile del casamento e del
luogo, allungata, bassa, con pannelli di quercia alle pareti e travi di quercia
al soffitto e vecchi mobili e vecchi quadri e vecchi libri e tutta un’aria di
tempi andati, variata da una quantità di fiori freschi disposti qua e là in
vasi di porcellana antica.
Dalle ampie
porte-finestre spalancate si godeva la veduta di un giardino fiorito cinto
d’un’alta siepe e, tra alberi e cespugli, si vedeva parte del Monastero di
Santa Caterina d’Alessandria dal lato di ponente, grigia e scura nell’ombra che
ora l’avvolgeva. Ma nel giardino e nella stanza odorante di fiori splendeva
lieto il sole, mettendo sprazzi di gaia luce sull’argenteria e sulle stoviglie
e sui volti dei tre che sedevano a mensa.
Di questi, due erano
giovani, e il terzo era uno di quegli uomini dei quali non è facile indovinare
l’età: alto, sbarbato, con gli occhi chiari, con un’aria vivace, di bella
presenza e d’aspetto intelligente. Un uomo che non poteva non appartenere alla
classe delle professioni colte.
Per certi aspetti non
gli si sarebbero dati più di quarant’anni. D’altro lato, i suoi capelli scuri
sulle tempie tendevano a incanutire. Era quello un uomo forte, intellettualmente
superiore, impeccabile nel contegno e nelle vesti, come si conveniva alla
professione che egli appunto esercitava, era medico e farmacista, con un’eletta
clientela nella società chiusa della città universitaria ed episcopale.
Gli aleggiava intorno
un’aria di benessere e di appagamento, mentre egli dava una prima occhiata a un
monte di lettere che era stato deposto accanto al suo piatto o scorreva il
giornale del mattino ed era facile accorgersi che in quel momento non lo
toccavano altre cure che le quotidiane, le quali, per quanto egli stesso ne
sapeva, non erano tali da dargli grandi preoccupazioni.
Vedendolo lì, in quel
simpatico ambiente domestico, in capo alla tavola, fra tante palesi
testimonianze di agiatezza e di buon gusto, tutti senza esitare avrebbero
ritenuto che il dottor Marco Ricci fosse tra i felici del mondo.
Il secondo dei tre era
un ragazzo sui diciassette anni, ben conformato e bello, dall’aria di studente
delle scuole medie, che pareva allora immerso in una duplice diversa
occupazione: quella di divorare un croissant alla crema, e quella di studiare
il testo latino, che si era piantato ritto in faccia, puntellandolo contro
l’antica oliera d’argento, mentre coi mobili occhi passava alternatamente dal
piatto al libro e di quando in quando ripeteva piano uno o due versi tra sè.
Gli altri due commensali lo lasciavano fare, sapendo per esperienza che egli
soleva rifarsi a colazione del tempo che sottraeva agli studi la sera.
Quanto alla terza
persona, una giovane sui diciannove o vent’anni, si capiva subito che doveva
essere la sorella del ragazzo. Avevano tutti e due una folta capigliatura
scura, quella di lei con qualche riflesso d’oro.
I grandi occhi grigi
della fanciulla, espressivi e temibili occhi dai lunghi cigli neri, parevano
ancora più chiari in quella luce mattutina, rendendo ancora più bruno il
bellissimo volto superbo e sagace ad un tempo. Di tra i cigli gli occhi
ridevano e sulle labbra rosse, alla vista del fratello immerso negli studi briosciari, come ella li chiamava,
trepidava un sorriso di tenerezza.
Era facile indovinare
che l’uno e l’altra dovevano aver vissuto molto all’aperto. Il fratello era già
muscoloso e vigoroso, e lei aveva l’aria di sapere assai bene maneggiare la
racchetta da tennis e il tiro con l’arco. E per contro nessuno avrebbe potuto
supporre una relazione di consanguineità fra quei due giovani e il signore a
capo di tavola, non essendovi tra quelli e questo alcuna somiglianza nè di
lineamenti, nè di carnagione, nè di maniere.
Mentre il giovine
studiava gli ultimi versi del suo latino, e il dottore scorreva il giornale, la
ragazza leggeva una lettera: certo la missiva di un’altra ragazza, a giudicare
dalla scrittura alta e slanciata. Era intenta a leggere, quando da una delle
torri minori della chiesa una campana cominciò a sonare: ella guardò suo
fratello e disse:
— Riccardo, ecco
Martino, ti devi spicciare.
Parecchi secoli prima
un degno cittadino di Urbino, che si chiamava Martino, aveva lasciato al Decano
dell’Università e al Capitolo Parrocchiale del Monastero di Santa Caterina
d’Alessandria una somma a condizione che, da una delle torri minori, una
campana dovesse squillare tutte le mattine tre minuti avanti le otto.
A che scopo Martino
avesse voluto mirare, nessuno lo sapeva, ma la campana serviva di memento agli
adulti che dovevano andare all’ufficio, e agli scolari che dovevano andare a
scuola. E Riccardo Belardinetti, senza far parola, buttò giù in fretta metà del
suo caffè, afferrò i libri e il berretto che era tra i libri sulla seggiola,
vicino a lui, e sparì dalla porta-finestra spalancata. Il dottore sorrise,
depose il giornale e porse la propria tazza alla giovane.
— Non devi crucciarti,
Valentina, per timore che Riccardo non arrivi in tempo! Tu non ti rendi conto
ancora di quel che possono fare le gambe di uno di diciassette anni. Riccardo
arriva dovunque in un quarto del tempo che impiegherei io, per esempio, e poi
conosce a meraviglia tutte le scorciatoie.
Valentina Belardinetti
prese la tazza vuota e cominciò a riempirla.
— Non mi piace, —
osservò, — che arrivi in ritardo. È l’inizio di una cattiva abitudine.
— Oh, per questo, sai,
— replicò bonariamente Ricci, — per questo Riccardo è al sicuro da certe
cattive abitudini. Non ho mai sospettato nemmeno che fumi.
— Perchè è persuaso
che fumare gl’impedirebbe di crescere e di giocare bene a calcio. Se non fosse
per questo, fumerebbe.
— Se è così, gli fai
un grande onore, e non potresti fargliene di più. Saper dominare le proprie
inclinazioni! Ottima cosa, e rara assai!
E, presa la tazza
riempita, s’alzò e aprì l’astuccio delle sigarette che era sul piano del
camino. La fanciulla, invece di riprendere la lettera, guardò lui, alquanto
irresoluta.
— Questo discorso, —
disse, — mi fa rammentare una cosa... una cosa che ti volevo dire. È proprio
vero che la gente non sa dominare le proprie inclinazioni. Vorrei, sì, che
qualcuno le sapesse dominare...
Ricci, volgendo di
botto le spalle al camino, guardò la fanciulla con un’occhiata scrutatrice, che
le fece più acceso il colore delle guance. Ella fermò lo sguardo sulla lettera,
che prese a piegare nervosamente.
E, subito Ricci, con
subita violenza e con accento d’inchiesta rapida e significativa, uscì con un
nome:
— Bartolucci?
La fanciulla assentì,
e le passò sul volto un’espressione di uggia e di ripugnanza.
Ricci, prima di
risponderle, accese una sigaretta.
— Ancora? — disse
finalmente. — Dopo... l’ultima volta?
— Due volte, — rispose
Valentina. — Mi seccava di raccontartelo... Non posso soffrire di venirti a
inquietare con questa storia. Ma... che devo farci? Non lo posso soffrire...
Non so perchè, ma è così, e nulla mi farà mutare pensiero. E benché glielo
abbia già detto, ch’era inutile, è tornato alla carica... ieri al ricevimento
della signora Falieri. Mentre ballavamo mi ha stretto a sé e ha tentato di
baciarmi.
— Diamine, che
sfacciataggine! — borbottò Ricci. — Oh, ma aggiusterò io le cose. Inutile
perdere il tempo con queste miserie. Già gli feci una blanda allusione... E non
ricomincerà. Benissimo.
— Ma... che vuoi fare?
— domandò lei ansiosa. — Non... licenziarlo?
— Se ha un po’ di
decoro, se n’andrà da sè, dopo quel che gli dirò, — riprese Ricci. — Non
turbarti per questo. Io non ho alcun entusiasmo per lui. È un ragazzo
abbastanza abile e un buon assistente, ma come individuo non mi piace e non mi
è mai piaciuto.
— Mi dorrebbe pensare
che qualche cosa che ho detto gli potesse nuocere facendogli perdere il posto,
— osservò piano la giovane. — Potrebbe parere...
— Non ti agitare, —
interruppe Ricci. — Ne troverà un altro sui due piedi. Comunque, non possiamo
lasciar andare le cose in questo modo. Quel giovinotto deve essere un asino.
Quand’ero giovine io...
S’arrestò
improvvisamente, e si voltò verso il giardino come assalito a un tratto da un
ricordo.
— Quando eri giovane
tu... che vuol dire, naturalmente, un gran pezzo fa... — disse Valentina con un
briciolo d’impertinenza, — che cosa?
— Se una donna diceva
no una volta in modo definitivo, un uomo riteneva quel no come irrevocabile.
Almeno, così ho sempre creduto. Ora invece...
— Tu dimentichi che il
signor Claudio Bartolucci è di quegli uomini che si sogliono chiamare
intraprendenti. Se nel mondo non gli verrà fatto di ottenere quel che cerca,
non sarà per non averlo chiesto. Ma, se tu gli devi parlare, e penso che
veramente sia il caso, vuoi dirgli che... che non mi otterrà? Forse da te si
lascerà persuadere, come mio tutore.
— Non so se i genitori
e i tutori contino molto in questi tempi di decadenza, — disse Ricci. — Ma...
io non voglio che ti dia noia. E mi pare che te ne abbia data abbastanza!
— È molto antipatico
di essere domandata tre volte da un uomo al quale si è detto recisamente, una
volta per tutte, che non si vuol saperne di lui, ma sentirsi le sue mani sul
mio seno e la sua bocca sulla mia è stata una cosa irritante— rispose la
giovane.
— Va bene, — rispose
calmo Ricci. — Gli parlerò. E sotto questo tetto non ti molesterà alcuno.
— Grazie, — disse
ella, — ma non era necessario di assicurarmene, perchè già lo so. E, ora, chi
sa se tu mi vorrai dire qualche cosa di più...
Ricci si volse,
improvvisamente inquieto, e chiese rapido:
— Cosa?
— Quando mi dirai
tutto quel che riguarda mio fratello e me? Come sai, mi hai promesso di farlo,
un giorno o l’altro. E da allora è passato un anno. E Riccardo ha diciassette
anni! Non si contenterà sempre di sapere soltanto che nostro padre e nostra
madre morirono quando eravamo piccini e che tu sei stato il nostro tutore... e
tutto il resto, per noi! Non vorreste dunque ora...
Ricci depose le
lettere che aveva prese in mano e infilandosi le mani in tasca si appoggiò con
le spalle al piano del camino.
— Non credi, — disse,
— di poter aspettare fino ai ventun anni?
— Perchè? — domandò
ella ridendo. — Ne ho venti precisi e tu credi sul serio che fra dodici mesi
sarò molto più saggia?
— Tu non puoi saperlo,
— replicò egli. — Molto più saggia potresti essere.
— Ma che c’entra
questo? — ella insistè. — È forse una ragione perchè io non possa essere
informata... di tutto?
E lo guardava con una
quantità di domande negli occhi.
Ricci s’era sempre reso
conto che il momento delle spiegazioni sarebbe inevitabilmente giunto, e sapeva
che non avrebbe fatto tacere a lungo questi quesiti con le solite scuse.
Esitava ed ella continuò, quasi giustificandosi:
— Vedi, non sappiamo
nulla, nulla ... Non ho mai saputo nulla e finché Riccardo è stato tanto
giovane e non se ne incaricava...
— Ha cominciato a
domandare? — chiese in fretta Ricci.
— Una volta o due,
recentemente, sì. È naturale.
Sorrise un poco, un
sorriso forzato.
— Dicono, — continuò
Valentina, — che oggi non importa se si ignora chi sia il proprio nonno, ma,
pensa, noi non sappiamo chi fu nostro padre. Sappiamo solo che si chiamava
Giacomo Belardinetti. Non è molto...
— Sai di più, —
rispose Ricci. — Ti ho detto, ti ho sempre detto, che era un uomo di affari,
vecchio amico mio, il quale, come tua madre, morì giovane, e che io, in qualità
di amico loro, divenni tutore tuo e di Riccardo. C’è... c’è molto di più da
dire?
— C’è qualche cosa che
mi sarebbe molto caro di sapere... per me, — rispose Valentina dopo una pausa
tanto lunga, che Ricci cominciava a sentirsi a disagio. — Non avertene a male,
non ti offendere se ti dico apertamente che cos’è. Sono sicurissima che a
Riccardo la cosa non è nemmeno passata per la mente, ma io ho tre anni di più.
Ecco, dimmi: siamo noi vissuti a tuo carico?
Una vampa salì al viso
di Ricci, che fissò un momento il giardino e gli aspetti del Monastero di Santa
Caterina d’Alessandria, e poi deliberatamente si volse a lei, e rispose:
— No! E, poiché me lo
chiedi, te lo dirò. Avete tutti e due un capitale, che vi spetterà quando
sarete maggiorenni. È ... è nelle mie mani. Non è una gran somma, ma basta a
sopperire a tutte le vostre spese, all’istruzione, a ogni cosa. Quando avrai
ventun anni, avrai la tua parte. Quando Riccardo ne avrà ventuno, avrà la sua.
Forse avrei dovuto dirti tutto questo prima, ma non mi pareva necessario.
Confesso che ho la tendenza a lasciar andare le cose...
— Tu non hai mai
lasciato andare le cose, per quel che ci riguarda! — gli rispose pronta Valentina,
con un baleno negli occhi, che gli fece volgere altrove i suoi. — E desideravo
di essere informata soltanto perchè... perchè mi ero formata l’idea che
dovessimo tutto a te.
— Non te l’eri formata
per causa mia! — esclamò egli.
— Oh no, non sarebbe
stato mai possibile! Ma... non capisci? Avevo voglia di sapere qualche cosa...
Ti ringrazio. E ora non chiedo altro.
— Sempre avevo pensato
di parlarti, — osservò Ricci dopo un’altra pausa. — Lo vedi! Mi persuado a
fatica che siete cresciuti ormai tutti e due. Un anno fa tu andavi a scuola e
Riccardo è ancora tanto giovane! E ora... sei più soddisfatta ora? — continuo
egli ansioso. — Altrimenti...
— Soddisfattissima, —
rispose Valentina. — Forse, un giorno, mi dirai qualche cosa di più intorno a
nostro padre e a nostra madre?... Ma ora non importa. Tu non ti duoli, non è
vero, di quello che ti ho domandato?
— No no, s’intende! —
disse egli in fretta. — E... Ma ne riparleremo. Devo andare in farmacia e
scambiare due parole con Bartolucci.
— Se tu potessi fargli
intender la ragione e fargli promettere di non ricominciare... Non sarebbe il
modo migliore di risolvere la questione?
Ricci scosse il capo
senza rispondere. Riprese le sue lettere e uscì, passando per un corridoio
lungo il fianco della casa. Quand’ebbe chiuso l’uscio e si trovò solo, emise un
profondo sospiro di sollievo.
E mormorò:
— Il cielo mi salvi se quel ragazzo vorrà
sapere la verità come è e aver le prove dei fatti! Dirlo a lei mi preoccupa
meno, quando sarà un po’ più matura, ma lui non sarà disposto a intendere le
cose come lei. Comunque, grazie a Dio posso tirare avanti con la finzione dei
quattrini senza che lei si accorga che le ho detto or ora una menzogna. Ma in
avvenire?... Ecco qui un uomo licenziato, ma ne verranno altri, finché uno sarà
il prescelto. Quello potrà vantarsene! E, Dio mio, bisogna che lei non veda,
devo non lasciarle vedere che sono innamorato pazzamente di lei io stesso! Lei
non l’immagina nè deve immaginarselo: io devo... devo continuare a essere il
tutore e null’altro!
Valentina era ancora
la ragazzina di un tempo, ma in meno di un anno le sue delicate membra di
adolescente avevano assunto forme di donna meravigliosa. La sua pelle di raro
tessuto si era come rischiarata del pallore carnoso che ha il fiore della
magnolia. La grazia che assecondava le linee del suo corpo slanciato e plastico
era divenuta come un'atmosfera di inebriante profumo che l’avvolgeva dai
capelli lunghi e fluenti alle caviglie sottili e delicate. La sua femminilità
era sbocciata in tutta la sua essenza, influenza misteriosa e sottile come una
melodia che batteva al ritmo dei battiti tumultuosi del suo cuore. Ma ella non
aveva ancora coscienza del proprio fascino. La sua giovinezza sostava in quel
periodo brevissimo di fragile contraddizione in cui la donna appena plasmata
fisicamente non ha ancora trovato l'ombra ove nascondere l’arcano della propria
spiritualità.
Gli venne fatto di
pensare a una frase che aveva udito una volta: “Il fascino di un fiore è nella sua incoerenza, così delicato nella
forma ma forte nel profumo, così piccolo nelle dimensioni ma grande nella
bellezza, così breve nella vita ma con un effetto così lungo.”
Vivo, luminoso, fosco
e bello, vide il volto di lei curvo su di lui. Trattenne il fiato nel timore di
vedere svanire quella immagine di cui avvertiva ancora il respiro, l’alito sano
e profumato: irreale presenza che aveva la forza di una cosa reale.
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