lunedì 11 aprile 2016

Ragnatela di Inganni di Giuseppe Fletther



Ragnatela di Inganni di Giuseppe Fletther

[Amazon – Google – Kobo – iBook]

Presentazione
Questo è un romanzo di fantasia che non ha nessuna attinenza con la realtà. Per questo anche la città di Urbino è stata immaginata in un contesto fantastico in cui, ad esempio, il Monastero di Santa Caterina d’Alessandria è stato, architettonicamente parlando, un po’ modificato. Infatti si parla di torri che il monastero non ha.
In una Urbino fortemente cattolica e perbenista si svolge una storia poliziesca oleata da perfetti meccanismi di costruzione della suspense. Lo stesso titolo del romanzo mette in evidenza l'elemento fondamentale su cui si basa la narrazione, ovvero un complesso intreccio di fatti che sembrano inestricabili.
I quesiti da risolvere sono: che mistero racchiude il rapporto che lega il giovane dottore Marco Ricci a Riccardo e Valentina Belardinetti a cui fa da tutore? Chi è quel misterioso signore che si è presentato alla porta del dottor Ricci e che poco dopo è stato trovato morto ai piedi del Monastero di Santa Caterina d’Alessandria? Si è trattato di un incidente o di un omicidio? Il giudice istruttore decide che si è trattato di un incidente, ma quando l’operaio Cantini, garzone muratore al Monastero di Santa Caterina d’Alessandria, viene trovato avvelenato tutto assume un altro aspetto. Che mistero racchiude l’iscrizione: In Para. Cammerinu. juxt. tumb. Ric. Iacch. ex cap. XXV. XV? Piano, piano viene alla luce una storia fatta di tradimenti e di vecchi rancori. Una storia di amore, odio e vendetta.
Incipit
Il turista straniero che entra in Urbino resta affascinato dal magico ambiente in cui viene a trovarsi. Dal basso, il borgo, massiccio e rappreso al dorsale e ai fianchi di due colline, lievi da un lato e ripide dall’altro, colpisce per il suo colore ocra chiaro, per le sue mura di pietra e di cotto che si fondono con il colore scuro delle montagne intorno.
Ma a farlo restare senza fiato, colpito da improvviso stupore, è che, varcato i bastioni cinquecenteschi, al di là dei malanni dei secoli e le alterazioni estetiche operate nei secoli, respira appieno l’aria rinascimentale della cittadina così come l’avevano concepita e vissuta il Bramante e Raffaello.
E, all’uomo di cultura, non può non tornare alla mente quanto detto nel 1581 da Michel de Montaigne «città non eccellente, sull’alto di una collina di media altezza, ma che si adagia da tutte le parti, a seconda dei pendii del luogo, di modo che non ha niente di uguale e dappertutto bisogna scendere e salire... », o dallo spagnolo Baltasar Graciàn y Morales «… palagi dei lodevoli duchi di Urbino... asili di Minerva, teatri delle Belle Lettere, centri di superiori ingegni... », o, ancora, dall’urbinese Paolo Volponi «Urbino mi piaceva ma nello stesso tempo mi sopraffaceva... Mi sopraffaceva soprattutto la sua società, una società piuttosto chiusa, con abitudini fisse, colma di indulgenze molto belle ma pericolose... Le stesse bellezze di Urbino rendono l’urbinate schiavo della sua città. Mi sentivo condizionato, come se mi trovassi dentro un liquido amniotico, il liquido del ventre della mamma... ».
Nessun altro punto dell’Italia offre con tanta evidenza un placido aspetto d’altri tempi. Lo sguardo vede sorgere, nel centro di un grande spiazzo erboso, fiancheggiato di grandi olmi e di faggi giganti, l’augusto edificio del Monastero di Santa Caterina d’Alessandria del secolo XIV, dall’alto campanile che si erge nel cielo in cui le cornacchie gracchiando tessono perpetui giri.
Le pietre, consunte dal tempo, delicate a vederle dappresso come trine, assumono nelle varie ore del giorno le più mutevoli sfumature, dal grigio al purpureo, e colpisce l’antitesi tra la mole massiccia della navata e il campanile, che, salendo svelto sopra le torri minori e le finestre aperte nella navata, s’assottiglia a piramide fino a disegnarsi pura linea nello spazio.
La mattina, come il pomeriggio e la sera, spira un’aria di riposo, e non solo intorno alla chiesa, ma altresì dalle case antiche e caratteristiche le quali la circondano chiudendo il recinto. L’osservatore ignaro pensa che in queste case, di data poco meno remota della mole che guardano dalle finestre incorniciate d’edera, la vita debba scorrere più piana che in alcun’altra parte del globo.
Sotto quegli alti pignoni, dietro quelle finestre divise in compartimenti da traverse di pietra, nei vecchi e bei giardini che si stendono fra le arcate di pietra e i tappeti erbosi ombreggiati dagli olmi, par che debba svolgersi soltanto una placida e lieta esistenza e, persino, le vie frequentate della vecchia città, racchiuse nelle antiche mura, paiono lontane lontane.
In una delle più antiche fra quelle case, mezzo nascosta dietro gli alberi in un angolo della cinta, tre persone facevano insieme la prima colazione in una bella mattina di maggio. La stanza nella quale sedevano riprendeva lo stile del casamento e del luogo, allungata, bassa, con pannelli di quercia alle pareti e travi di quercia al soffitto e vecchi mobili e vecchi quadri e vecchi libri e tutta un’aria di tempi andati, variata da una quantità di fiori freschi disposti qua e là in vasi di porcellana antica.
Dalle ampie porte-finestre spalancate si godeva la veduta di un giardino fiorito cinto d’un’alta siepe e, tra alberi e cespugli, si vedeva parte del Monastero di Santa Caterina d’Alessandria dal lato di ponente, grigia e scura nell’ombra che ora l’avvolgeva. Ma nel giardino e nella stanza odorante di fiori splendeva lieto il sole, mettendo sprazzi di gaia luce sull’argenteria e sulle stoviglie e sui volti dei tre che sedevano a mensa.
Di questi, due erano giovani, e il terzo era uno di quegli uomini dei quali non è facile indovinare l’età: alto, sbarbato, con gli occhi chiari, con un’aria vivace, di bella presenza e d’aspetto intelligente. Un uomo che non poteva non appartenere alla classe delle professioni colte.
Per certi aspetti non gli si sarebbero dati più di quarant’anni. D’altro lato, i suoi capelli scuri sulle tempie tendevano a incanutire. Era quello un uomo forte, intellettualmente superiore, impeccabile nel contegno e nelle vesti, come si conveniva alla professione che egli appunto esercitava, era medico e farmacista, con un’eletta clientela nella società chiusa della città universitaria ed episcopale.
Gli aleggiava intorno un’aria di benessere e di appagamento, mentre egli dava una prima occhiata a un monte di lettere che era stato deposto accanto al suo piatto o scorreva il giornale del mattino ed era facile accorgersi che in quel momento non lo toccavano altre cure che le quotidiane, le quali, per quanto egli stesso ne sapeva, non erano tali da dargli grandi preoccupazioni.
Vedendolo lì, in quel simpatico ambiente domestico, in capo alla tavola, fra tante palesi testimonianze di agiatezza e di buon gusto, tutti senza esitare avrebbero ritenuto che il dottor Marco Ricci fosse tra i felici del mondo.
Il secondo dei tre era un ragazzo sui diciassette anni, ben conformato e bello, dall’aria di studente delle scuole medie, che pareva allora immerso in una duplice diversa occupazione: quella di divorare un croissant alla crema, e quella di studiare il testo latino, che si era piantato ritto in faccia, puntellandolo contro l’antica oliera d’argento, mentre coi mobili occhi passava alternatamente dal piatto al libro e di quando in quando ripeteva piano uno o due versi tra sè. Gli altri due commensali lo lasciavano fare, sapendo per esperienza che egli soleva rifarsi a colazione del tempo che sottraeva agli studi la sera.
Quanto alla terza persona, una giovane sui diciannove o vent’anni, si capiva subito che doveva essere la sorella del ragazzo. Avevano tutti e due una folta capigliatura scura, quella di lei con qualche riflesso d’oro.
I grandi occhi grigi della fanciulla, espressivi e temibili occhi dai lunghi cigli neri, parevano ancora più chiari in quella luce mattutina, rendendo ancora più bruno il bellissimo volto superbo e sagace ad un tempo. Di tra i cigli gli occhi ridevano e sulle labbra rosse, alla vista del fratello immerso negli studi briosciari, come ella li chiamava, trepidava un sorriso di tenerezza.
Era facile indovinare che l’uno e l’altra dovevano aver vissuto molto all’aperto. Il fratello era già muscoloso e vigoroso, e lei aveva l’aria di sapere assai bene maneggiare la racchetta da tennis e il tiro con l’arco. E per contro nessuno avrebbe potuto supporre una relazione di consanguineità fra quei due giovani e il signore a capo di tavola, non essendovi tra quelli e questo alcuna somiglianza nè di lineamenti, nè di carnagione, nè di maniere.
Mentre il giovine studiava gli ultimi versi del suo latino, e il dottore scorreva il giornale, la ragazza leggeva una lettera: certo la missiva di un’altra ragazza, a giudicare dalla scrittura alta e slanciata. Era intenta a leggere, quando da una delle torri minori della chiesa una campana cominciò a sonare: ella guardò suo fratello e disse:
— Riccardo, ecco Martino, ti devi spicciare.
Parecchi secoli prima un degno cittadino di Urbino, che si chiamava Martino, aveva lasciato al Decano dell’Università e al Capitolo Parrocchiale del Monastero di Santa Caterina d’Alessandria una somma a condizione che, da una delle torri minori, una campana dovesse squillare tutte le mattine tre minuti avanti le otto.
A che scopo Martino avesse voluto mirare, nessuno lo sapeva, ma la campana serviva di memento agli adulti che dovevano andare all’ufficio, e agli scolari che dovevano andare a scuola. E Riccardo Belardinetti, senza far parola, buttò giù in fretta metà del suo caffè, afferrò i libri e il berretto che era tra i libri sulla seggiola, vicino a lui, e sparì dalla porta-finestra spalancata. Il dottore sorrise, depose il giornale e porse la propria tazza alla giovane.
— Non devi crucciarti, Valentina, per timore che Riccardo non arrivi in tempo! Tu non ti rendi conto ancora di quel che possono fare le gambe di uno di diciassette anni. Riccardo arriva dovunque in un quarto del tempo che impiegherei io, per esempio, e poi conosce a meraviglia tutte le scorciatoie.
Valentina Belardinetti prese la tazza vuota e cominciò a riempirla.
— Non mi piace, — osservò, — che arrivi in ritardo. È l’inizio di una cattiva abitudine.
— Oh, per questo, sai, — replicò bonariamente Ricci, — per questo Riccardo è al sicuro da certe cattive abitudini. Non ho mai sospettato nemmeno che fumi.
— Perchè è persuaso che fumare gl’impedirebbe di crescere e di giocare bene a calcio. Se non fosse per questo, fumerebbe.
— Se è così, gli fai un grande onore, e non potresti fargliene di più. Saper dominare le proprie inclinazioni! Ottima cosa, e rara assai!
E, presa la tazza riempita, s’alzò e aprì l’astuccio delle sigarette che era sul piano del camino. La fanciulla, invece di riprendere la lettera, guardò lui, alquanto irresoluta.
— Questo discorso, — disse, — mi fa rammentare una cosa... una cosa che ti volevo dire. È proprio vero che la gente non sa dominare le proprie inclinazioni. Vorrei, sì, che qualcuno le sapesse dominare...
Ricci, volgendo di botto le spalle al camino, guardò la fanciulla con un’occhiata scrutatrice, che le fece più acceso il colore delle guance. Ella fermò lo sguardo sulla lettera, che prese a piegare nervosamente.
E, subito Ricci, con subita violenza e con accento d’inchiesta rapida e significativa, uscì con un nome:
— Bartolucci?
La fanciulla assentì, e le passò sul volto un’espressione di uggia e di ripugnanza.
Ricci, prima di risponderle, accese una sigaretta.
— Ancora? — disse finalmente. — Dopo... l’ultima volta?
— Due volte, — rispose Valentina. — Mi seccava di raccontartelo... Non posso soffrire di venirti a inquietare con questa storia. Ma... che devo farci? Non lo posso soffrire... Non so perchè, ma è così, e nulla mi farà mutare pensiero. E benché glielo abbia già detto, ch’era inutile, è tornato alla carica... ieri al ricevimento della signora Falieri. Mentre ballavamo mi ha stretto a sé e ha tentato di baciarmi.
— Diamine, che sfacciataggine! — borbottò Ricci. — Oh, ma aggiusterò io le cose. Inutile perdere il tempo con queste miserie. Già gli feci una blanda allusione... E non ricomincerà. Benissimo.
— Ma... che vuoi fare? — domandò lei ansiosa. — Non... licenziarlo?
— Se ha un po’ di decoro, se n’andrà da sè, dopo quel che gli dirò, — riprese Ricci. — Non turbarti per questo. Io non ho alcun entusiasmo per lui. È un ragazzo abbastanza abile e un buon assistente, ma come individuo non mi piace e non mi è mai piaciuto.
— Mi dorrebbe pensare che qualche cosa che ho detto gli potesse nuocere facendogli perdere il posto, — osservò piano la giovane. — Potrebbe parere...
— Non ti agitare, — interruppe Ricci. — Ne troverà un altro sui due piedi. Comunque, non possiamo lasciar andare le cose in questo modo. Quel giovinotto deve essere un asino. Quand’ero giovine io...
S’arrestò improvvisamente, e si voltò verso il giardino come assalito a un tratto da un ricordo.
— Quando eri giovane tu... che vuol dire, naturalmente, un gran pezzo fa... — disse Valentina con un briciolo d’impertinenza, — che cosa?
— Se una donna diceva no una volta in modo definitivo, un uomo riteneva quel no come irrevocabile. Almeno, così ho sempre creduto. Ora invece...
— Tu dimentichi che il signor Claudio Bartolucci è di quegli uomini che si sogliono chiamare intraprendenti. Se nel mondo non gli verrà fatto di ottenere quel che cerca, non sarà per non averlo chiesto. Ma, se tu gli devi parlare, e penso che veramente sia il caso, vuoi dirgli che... che non mi otterrà? Forse da te si lascerà persuadere, come mio tutore.
— Non so se i genitori e i tutori contino molto in questi tempi di decadenza, — disse Ricci. — Ma... io non voglio che ti dia noia. E mi pare che te ne abbia data abbastanza!
— È molto antipatico di essere domandata tre volte da un uomo al quale si è detto recisamente, una volta per tutte, che non si vuol saperne di lui, ma sentirsi le sue mani sul mio seno e la sua bocca sulla mia è stata una cosa irritante— rispose la giovane.
— Va bene, — rispose calmo Ricci. — Gli parlerò. E sotto questo tetto non ti molesterà alcuno.
— Grazie, — disse ella, — ma non era necessario di assicurarmene, perchè già lo so. E, ora, chi sa se tu mi vorrai dire qualche cosa di più...
Ricci si volse, improvvisamente inquieto, e chiese rapido:
— Cosa?
— Quando mi dirai tutto quel che riguarda mio fratello e me? Come sai, mi hai promesso di farlo, un giorno o l’altro. E da allora è passato un anno. E Riccardo ha diciassette anni! Non si contenterà sempre di sapere soltanto che nostro padre e nostra madre morirono quando eravamo piccini e che tu sei stato il nostro tutore... e tutto il resto, per noi! Non vorreste dunque ora...
Ricci depose le lettere che aveva prese in mano e infilandosi le mani in tasca si appoggiò con le spalle al piano del camino.
— Non credi, — disse, — di poter aspettare fino ai ventun anni?
— Perchè? — domandò ella ridendo. — Ne ho venti precisi e tu credi sul serio che fra dodici mesi sarò molto più saggia?
— Tu non puoi saperlo, — replicò egli. — Molto più saggia potresti essere.
— Ma che c’entra questo? — ella insistè. — È forse una ragione perchè io non possa essere informata... di tutto?
E lo guardava con una quantità di domande negli occhi.
Ricci s’era sempre reso conto che il momento delle spiegazioni sarebbe inevitabilmente giunto, e sapeva che non avrebbe fatto tacere a lungo questi quesiti con le solite scuse. Esitava ed ella continuò, quasi giustificandosi:
— Vedi, non sappiamo nulla, nulla ... Non ho mai saputo nulla e finché Riccardo è stato tanto giovane e non se ne incaricava...
— Ha cominciato a domandare? — chiese in fretta Ricci.
— Una volta o due, recentemente, sì. È naturale.
Sorrise un poco, un sorriso forzato.
— Dicono, — continuò Valentina, — che oggi non importa se si ignora chi sia il proprio nonno, ma, pensa, noi non sappiamo chi fu nostro padre. Sappiamo solo che si chiamava Giacomo Belardinetti. Non è molto...
— Sai di più, — rispose Ricci. — Ti ho detto, ti ho sempre detto, che era un uomo di affari, vecchio amico mio, il quale, come tua madre, morì giovane, e che io, in qualità di amico loro, divenni tutore tuo e di Riccardo. C’è... c’è molto di più da dire?
— C’è qualche cosa che mi sarebbe molto caro di sapere... per me, — rispose Valentina dopo una pausa tanto lunga, che Ricci cominciava a sentirsi a disagio. — Non avertene a male, non ti offendere se ti dico apertamente che cos’è. Sono sicurissima che a Riccardo la cosa non è nemmeno passata per la mente, ma io ho tre anni di più. Ecco, dimmi: siamo noi vissuti a tuo carico?
Una vampa salì al viso di Ricci, che fissò un momento il giardino e gli aspetti del Monastero di Santa Caterina d’Alessandria, e poi deliberatamente si volse a lei, e rispose:
— No! E, poiché me lo chiedi, te lo dirò. Avete tutti e due un capitale, che vi spetterà quando sarete maggiorenni. È ... è nelle mie mani. Non è una gran somma, ma basta a sopperire a tutte le vostre spese, all’istruzione, a ogni cosa. Quando avrai ventun anni, avrai la tua parte. Quando Riccardo ne avrà ventuno, avrà la sua. Forse avrei dovuto dirti tutto questo prima, ma non mi pareva necessario. Confesso che ho la tendenza a lasciar andare le cose...
— Tu non hai mai lasciato andare le cose, per quel che ci riguarda! — gli rispose pronta Valentina, con un baleno negli occhi, che gli fece volgere altrove i suoi. — E desideravo di essere informata soltanto perchè... perchè mi ero formata l’idea che dovessimo tutto a te.
— Non te l’eri formata per causa mia! — esclamò egli.
— Oh no, non sarebbe stato mai possibile! Ma... non capisci? Avevo voglia di sapere qualche cosa... Ti ringrazio. E ora non chiedo altro.
— Sempre avevo pensato di parlarti, — osservò Ricci dopo un’altra pausa. — Lo vedi! Mi persuado a fatica che siete cresciuti ormai tutti e due. Un anno fa tu andavi a scuola e Riccardo è ancora tanto giovane! E ora... sei più soddisfatta ora? — continuo egli ansioso. — Altrimenti...
— Soddisfattissima, — rispose Valentina. — Forse, un giorno, mi dirai qualche cosa di più intorno a nostro padre e a nostra madre?... Ma ora non importa. Tu non ti duoli, non è vero, di quello che ti ho domandato?
— No no, s’intende! — disse egli in fretta. — E... Ma ne riparleremo. Devo andare in farmacia e scambiare due parole con Bartolucci.
— Se tu potessi fargli intender la ragione e fargli promettere di non ricominciare... Non sarebbe il modo migliore di risolvere la questione?
Ricci scosse il capo senza rispondere. Riprese le sue lettere e uscì, passando per un corridoio lungo il fianco della casa. Quand’ebbe chiuso l’uscio e si trovò solo, emise un profondo sospiro di sollievo.
E mormorò:
 — Il cielo mi salvi se quel ragazzo vorrà sapere la verità come è e aver le prove dei fatti! Dirlo a lei mi preoccupa meno, quando sarà un po’ più matura, ma lui non sarà disposto a intendere le cose come lei. Comunque, grazie a Dio posso tirare avanti con la finzione dei quattrini senza che lei si accorga che le ho detto or ora una menzogna. Ma in avvenire?... Ecco qui un uomo licenziato, ma ne verranno altri, finché uno sarà il prescelto. Quello potrà vantarsene! E, Dio mio, bisogna che lei non veda, devo non lasciarle vedere che sono innamorato pazzamente di lei io stesso! Lei non l’immagina nè deve immaginarselo: io devo... devo continuare a essere il tutore e null’altro!
Valentina era ancora la ragazzina di un tempo, ma in meno di un anno le sue delicate membra di adolescente avevano assunto forme di donna meravigliosa. La sua pelle di raro tessuto si era come rischiarata del pallore carnoso che ha il fiore della magnolia. La grazia che assecondava le linee del suo corpo slanciato e plastico era divenuta come un'atmosfera di inebriante profumo che l’avvolgeva dai capelli lunghi e fluenti alle caviglie sottili e delicate. La sua femminilità era sbocciata in tutta la sua essenza, influenza misteriosa e sottile come una melodia che batteva al ritmo dei battiti tumultuosi del suo cuore. Ma ella non aveva ancora coscienza del proprio fascino. La sua giovinezza sostava in quel periodo brevissimo di fragile contraddizione in cui la donna appena plasmata fisicamente non ha ancora trovato l'ombra ove nascondere l’arcano della propria spiritualità.
Gli venne fatto di pensare a una frase che aveva udito una volta: “Il fascino di un fiore è nella sua incoerenza, così delicato nella forma ma forte nel profumo, così piccolo nelle dimensioni ma grande nella bellezza, così breve nella vita ma con un effetto così lungo.”

Vivo, luminoso, fosco e bello, vide il volto di lei curvo su di lui. Trattenne il fiato nel timore di vedere svanire quella immagine di cui avvertiva ancora il respiro, l’alito sano e profumato: irreale presenza che aveva la forza di una cosa reale.

Nessun commento:

Posta un commento